Il vecchio e il nuovo Frascati

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Non sono uno specialista del vino di Frascati o dei Castelli Romani in generale, ma in trent’anni e passa di degustazioni ho comunque incrociato molti vini di questo territorio.
La prima domanda da farsi davanti a un Frascati è: qual è la prima domanda da farsi davanti a un Frascati?
La prima domanda è nei fatti quindi anche la seconda domanda.
Questo aspetto, di farsi domande, ha il suo peso.
In passato alle domande giuste (“come deve essere un buon Frascati?”) i produttori hanno spesso dato le risposte sbagliate: bianchi scarnificati da rese altissime e soprattutto da vinificazioni che restituivano un liquido del colore e del sapore dell’acqua (anni ’70 e ’80).

In altri casi alle domande sbagliate (“voglio un Frascati grasso, simil-Borgogna, pieno di rovere”) qualcuno ha dato risposte giuste: penso, per fare un paio di esempi, ai semplici ma non ostentati vini di Casale Marchese o di Villa Simone, i cui profili hanno mantenuto più o meno sempre un discreto legame identitario con il territorio anche in piena tempesta turbomodernista.

La produzione attuale, dopo decenni di sonno profondo, sta mostrando segnali di notevole dinamismo. Nuovi vignaioli propongono bottiglie che nei casi più virtuosi cercano di riallacciare un dialogo non passivo con il portato storico.

Con l’amico e sodale alterato Giampaolo Gravina abbiamo condotto a Frascati domenica scorsa un seminario (chiamato inevitabilmente “masterclass”), oggetto i nuovi fermenti produttivi in zona. Dove “fermenti” va inteso nell’accezione ammiccante a “ri-fermenti”, a vini “ri-fermentati”. Ovvero a quella categoria di bottiglie frizzanti, in tumultuosa crescita di interesse e quindi di vendite, che viene chiamata anche pet-nat, dal gallico pétillant naturel.

Dice: cosa c’entra questo tipo di vini con il Frascati? C’entra, c’entra. Con robuste evidenze documentali, è assodato che i bianchi dei Castelli fossero:

a) condotti spessissimo sulle bucce, il che li rendeva a tutti gli effetti degli orange wines ante litteram. E restituiva al bevitore un colore tra il giallo uovo e l’arancione, en vin jeune

b) soggetti a un progressivo imbrunimento del colore (per la presenza di sostanze facilmente ossidabili, non rimosse dalla tecnologia dell’epoca), che con l’arrivo dei primi caldi, verso aprile/maggio, virava verso la tinta di un Cognac, e poi finiva nella maderizzazione conclusiva color marrone

c) soggetti altresì, sempre con i primi tepori primaverili, a una rifermentazione spontanea e incontrollata, per la presenza frequente di zuccheri residui che i lieviti facevo ripartire

Ciò spingeva i vignaioli e gli osti a offrire la cosiddetta romanella, ovvero un vinello frizzantino da poche lire, però facilissimo da mandare giù.

En passant, a puro titolo di esempio visivo, la prima documentazione fotografica esistente – almeno a mia conoscenza, dopo aver condotto una ricerca durata almeno venti minuti – del colore di un vino dei Castelli è nel film Racconti Romani, del 1955. Una delle prime pellicole a colori italiche, il colore essendo comparso nel 1952 (se si esclude un’operina minore del ’51). Qui una sequenza esemplificativa, dove si offre a due turisti inglesi “mezzo litro de Frascati”:

Certo, ci si può domandare legittimamente se sia stato utilizzato vero vino per girare, e – se sì – vero vino dei Castelli. Ma famo a fidasse, sennò non ne usciamo.

E i vini assaggiati durante la serata, com’erano? Tutti o quasi irresistibilmente beverini, sciolti, leggeri. Dal gustoso Ribolie di Ribelà al Coqui di Merumalia, dal Prima Nicchia di Cantina del Tufaio al Bolle di Grotta di La Torretta, ognuno condivideva con gli altri un assetto per così dire giocoso, aereo, sbarazzino. Anche altri due vini laziali “fuori zona”, il succoso rifermentato senza nome di Maria Ernesta Berucci  e il più pieno Cosmicone di Casale Certosa si sono mossi – è il caso di dirlo – sullo stesso piano.

Ciò che mi ha fatto riflettere su un punto: per oltre un decennio abbiamo riportato, in apertura della vecchia guida espressica, la sentenza di Rabelaisbere senza pensarci è come non bere”. Un motto illuminato, quando si ha a che fare con vini di grande complessità e intensità. Ma un motto che si può contestare, o meglio dimenticare, quando si bevono vini come questi: giocosi, aerei, sbarazzini. Vini da bere senza pensare.

Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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