Scoglio Nero. Riflessioni su Ansonica e genius loci

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A scrivere di vino la superficialità è un rischio grave. E’ richiesto di prodursi in tuttologia, e se è pur vero che assaggiare le bottiglie più disparate, dalle Alpi alle Piramidi, arricchisce la sensibilità di un degustatore, è anche vero che ciò può sciaguratamente condurre alla falsa impressione di sapere molto o addirittura tutto, e di capire a prescindere ciò che ci viene proposto nel bicchiere, quando al contrario, spesso e volentieri, ne mancano gli strumenti. Se non altro perché a Dio piacendo esistono vini particolarmente marcati dal genius loci, dei quali è esercizio lezioso discettare se non lo si è toccato con mano e se non si sono “camminate le vigne”, come molti, in più casi, si pregiano di affermare con sussiego degno di miglior causa.

A questo stavo pensando, mentre prendevo l’ultimo sole di settembre sul traghetto (dal nome Giuseppe Rum!) che mi stava conducendo all’Isola del Giglio, dove su invito della Tenuta Casenuove di Panzano in Chianti mi recavo a conoscere il loro progetto tirrenico, una produzione confidenziale di Ansonica in purezza evocativamente denominata Scoglio Nero.

L’esperienza mi ha portato a sostenere come “di produttori di vino non ce n’è uno a garbo”, come si è soliti dire alla toscana. E un poco di pazzia indubbiamente gli ha fatto comodo, al proprietario Philippe Austruy, amante dell’arte e della bellezza (e non è un caso), per imbarcarsi in un’avventura del genere. Il gene della follia abbisogna altresì in copioso ammontare per il direttore e agronomo Alessandro Fonseca, vero regisseur alla francese che non ha paura di sporcarsi le mani, e per i suoi sodali, in primis l’enologo Cosimo Casini.

Ormai sistematicamente, quando si rende necessaria la cura degli scoscesi vigneti isolani, si alzano prima dell’alba a Panzano, si scapicollano fino a Porto Santo Stefano in tempo utile per prendere il primo traghetto diretto verso l’isola, raggiungono una vigna (in effetti trattasi di diverse minuscole parcelle, quindi il tutto si ripete più volte) praticando un vero e proprio trekking, e la lavorano rigorosamente a mano, perché qualsivoglia meccanizzazione, motocoltivatore compreso, vorrebbe dire portarsi l’attrezzatura a spalla giù per un sentiero la cui praticabilità ha messo a dura prova anche chi scrive, che si dà arie di camminatore ma è notoriamente sovrappeso.

Più ancora, quando si vendemmia, le cassette d’uva viaggiano per l’appunto a spalla, e se non siamo alle pendenze delle Cinque Terre o del Douro poco ci manca. E poi correre a perdifiato per riuscire a imbarcarsi sull’ultimo traghetto della sera, perché l’indomani magari c’è un sangiovese di Panzano che reclama attenzioni.

Dal fondo della sala qualcuno alza la mano e suggerisce la costruzione di una monorotaia: frammentazione della proprietà e dei fondi a parte, ci chiediamo se ne varrebbe realmente la pena, per una produzione confidenziale che a pezzi e bocconi raggiungerà -se va bene- le poche migliaia di bottiglie.

E’, questo, un significativo esempio di viticoltura eroica, corredato della necessaria dose di sana follia, la quale però, nella fattispecie, ben si comprende se si è ammirato lo smisurato panorama che si gode dalle vigne, se si è respirata la brezza salina che c’è lì, se ci si è impolverati di quella terra povera, e se si è apprezzato la fattura dei muretti che difendono le viti dalle frane o dalle libecciate.

Ciò che ne deriva è un bianco di debordante personalità che trascende l’identità varietale (quanto mai cangiante, peraltro): salino e polposo, impattante nel frutto (agrumi, in particolare un richiamo al qumqat, mela renetta), con un respiro balsamico a screziare una rassicurante ma non banale maturità. E tra l’altro, chi ha mai detto che l’Ansonica difetti in acidità? Gli assaggi sono stati ripetuti, ma il vino è uno solo, e quello rimarrà, stante i numeri confidenziali; quindi ne abbiamo degustate più annate, in strepitoso connubio con la cucina isolana. Ebbene, anche le versioni più evolute, oltre a rivelare un insospettato coté di frutta esotica, nell’esprimere con disarmante sincerità gli andamenti vendemmiali mai hanno ceduto al tempo, mai sono apparse stanche. E se una minima deriva ossidativa la si è riscontrata, quest’ultima ne ha solo amplificato la complessità aromatica.

Corre pertanto l’obbligo di tentare qualche riflessione in merito all’Ansonica, anche in forza degli assaggi sparsi effettuati alla festa di fine estate a Giglio Castello, nonché della panoramica fornita da un evento organizzato ad Orbetello proprio nel weekend del mio ritorno, al quale non ho mancato di sostare.

L’impressione generale è che si tratti di vitigno che si presti a una molteplicità di interpretazioni, ivi comprese – purtroppo – quelle banalizzanti. Pare che una malolattica ordinata, e magari qualche lievito selezionato, incrementino l’immediatezza fruttata fino a un livello certamente accattivante, ma al contempo mandino in cavalleria un universo di sfumature.

Più ancora, rifulge l’importanza di una vinificazione accurata: nella deliziosa caciara della festa di Giglio Castello (a proposito, un sentito plauso alle band isolane!) troppe referenze artigianali esibivano un campionario di imprecisioni aromatiche e di acidità volatili alle stelle, a connotare vini scomposti, con alcool e freschezza a guardarsi in cagnesco.

In effetti, non è mai facile trovare il giusto compromesso tra precisione esecutiva e aderenza territoriale, ma ciò non significa che non si debba continuare a provarci, anche perché il sapido terroir del Giglio merita di essere sfruttato, e poi non mancavano di certo esempi (pochi, per la verità) in grado di unire in modo virtuoso frutto e sapore.

Ad Orbetello invece le aziende presenti avevano “spalle enologiche più larghe”, e in effetti di errori “grammaticali” non se ne sono quasi mai registrati. E’ stato però difficile sintetizzarne un filo conduttore: si passava da versioni piacevolmente fruttate e tendenzialmente indirizzate all’immediatezza, ad altre dure e pure in termini di mineralità, volutamente “ossute” ma saporite e profonde (e hai visto mai che con il tempo non sappiano stupirci aprendosi nei toni maturi!), per toccare poi le inevitabili versioni macerative e/o affinate in anfora, a giudizio di chi scrive non particolarmente distinguibili dal profilo mainstream della tipologia. C’erano però alcune vecchie annate oggettivamente affascinanti, che sfruttavano l’evoluzione ossidativa per distillare complessità, peraltro con un’acidità vibrante a vivificarle, rendendole potenzialmente gastronomiche pur nella loro singolarità stilistica e organolettica.

In questo panorama, Scoglio Nero è un vino così unico da imporre de facto un nuovo paradigma di tipicità. Ma non avrei potuto comprenderlo se non mi fossi recato al Giglio (da cui mancavo da molto più tempo di quanto mi piaccia ricordare), se non avessi visto quello che ho visto e se non avessi concesso alla mia sensibilità di essere umano, non solo di degustatore, di inebriarsi di emozioni.

Vivaddio esistono ancora vini che vengono creati facendo ricorso a una sana follia, vini che vale la pena di cercare, in questo caso concedendosi magari una sosta nei ristoranti selezionati che riusciranno ad aggiudicarsi le poche bottiglie prodotte. Per apprezzarli appieno occorrerà un modo di pensare fuori dagli schemi. E se verrà forse il giorno in cui l’intelligenza artificiale scriverà le note di degustazione perfette, quando si confronterà con vini come Scoglio Nero sarà comunque ancora come tentare di evocare la suggestione di una foresta descrivendo minutamente la corteccia dell’albero più vicino.

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Riccardo Margheri

Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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Sono oramai una ventina d’anni che sto con il bicchiere in mano, per i motivi più disparati, tra i quali per fortuna non manca mai il piacere personale. Ogni calice mi pone una domanda, e anche se non riesco a rispondere di certo imparo qualcosa. Così quel calice cerco di raccontarlo, insegnando ai corsi sommelier Fisar, conducendo escursioni enoturistiche, nelle master class che ho l’onore di tenere per il Consorzio del Chianti Classico; per tacere delle mie riflessioni assai logorroiche che infestano le pagine web e cartacee, come quelle della Guida Vini Buoni d’Italia per la quale sono co-responsabile per la Toscana. Amo il Sangiovese, Il Riesling della Mosella, il Porto, ma non perdo mai occasione per accostarmi a tutto ciò che viene dall’altrove enoico. Vivo da solo e a casa non bevo vino, poiché per me il vino è condivisione: per fortuna mangio spesso fuori, in compagnia.

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