La' dove il sangiovese è nudo, e pure re. Fattoria Poggio di Sotto a Montalcino

di Fernando Pardini

A ragion veduta c'è un fatto che mi ha sorpreso più di altri. Che vini del genere, quali quelli che vi racconto oggi, pervasi come sono da ancestrali vibrazioni, profonde e insondabili da sembrare innate, quasi fossero primigenia espressione di natura o magnifici naufraghi liquidi di una storia contadina pervenutaci da chissaddove, che vini così, vi dicevo, di fatto dimentichi del tempo, possano invece nel tempo avere una collocazione, possano ad esempio "possedere" un inizio. Purtroppo è così, miei cari sognatori. Sorprendente ma è così. Quei vini dei quali ti sembra di non scorgervi il tempo in realtà lo posseggono. Ahinoi, non sfuggono al repertorio. In questa storia il tempo, il loro tempo, ha inizio con la "calata" in Montalcino di un uomo di riviera innamorato dei grandi vini, sagoma maremmana di alta stazza e non più di primo pelo a nome Piero Palmucci, e la conseguente fondazione di una azienda agricola a stretto giro familiare chiamata Poggio di Sotto.

L'orologio del tempo, da quelle parti, indicava l'anno 1989. La sorpresa qual'è stata? Che una realtà tutto sommato recente, nata nel bel mezzo di un'onda montante fatta di investimenti forti e ripetuti nel campo mio amato vitivinicolo, ti andasse a partorire vini incontaminati come mai prima di allora, per nulla figli del loro tempo! Vedi un po' a cosa spinge la passione! E' stato così che fin dagli esordi e via via con sempre minor timidezza, quei vini -e loro non lo sanno- hanno contribuito a creare uno scarto temporale nella cognizione sensoriale imperante e uno spartiacque profondo nel mare magnum della cultura enologica del tempo. Tutte le certezze sbandierate che da lì a poco avrebbero invaso le pratiche enologiche in ogni dove, Toscana inclusa, d'un colpo bellamente disattese. Perdipiù da un autentico parvenu della sponda ilcinese. Ma come, mi presenti un sangiovese pallido e angolare, trasparente e granato, che sembra già evoluto ancor prima di nascere, quando tecnologia e nuovi cloni (?) fanno miracoli in fatto di densità e saturazioni coloranti? Eppoi dai, mi presenti un vino così spoglio ed essenziale, etereo e svolazzante, salato e terroso, oltretutto problematico nei profumi, quando la fantascienza che c'è oggi in giro mi consente soffici consistenze, aromi fruttati in prima linea, morbide e spensierate voluttà? No, non sta bene. Non ci azzecca.

Ma Piero Palmucci è pur sempre un toscano, e la caparbietà, per i toscani, si sa, è una prerogativa esistenziale. A casa sua non c'era spazio per scorciatoie, effetti speciali e grilli parlanti. E' stato così, nella determinazione di un diverso agire, che Piero ed Elisabeth - moglie assolutamente complice - hanno creato un solco e una storia da condividere. Nella testa, ben supportata dal sapere -questo sì senza tempo- di un uomo di vino quale Giulio Gambelli, c'era un'idea che girava attorno; parlava di purezza, rispetto, sobrietà, raffinatezza. Nella testa di Piero, un manifesto d'amore declinato fin da subito nei confronti dell'anima più pura, sussurrata, imponderabile del sangiovese. Ne è nato un volo sopra ogni apparenza e contingenza, a tentare di disegnare i confini di un vino di razza, "antico" e futuribile, intimo e subliminale, inimitabile e solo, fatto di degradare armonici, carezze, garbo espositivo, anima sapido-minerale, naturalezza e nudità. Il volo è ancora in atto, e una volta ancora, in quel tardo pomeriggio settembrino che tentava a fatica di scrollarsi da dosso la tempesta mattutina, ne sono stato partecipe.

Ma non di sole idee si nutre un progetto. Un progetto agricolo poi ha delle concause naturali ineludibili. A Castelnuovo dell'Abate, nei diversi appezzamenti acquistati da Piero Palmucci a cominciare da 15 anni fa - oggi fanno 12 ettari - c'è un genius loci che non ha sembianze umane ma è oltremodo animato: il terroir. Su quelle terre povere e sciolte, galestrose e ricche di scheletro, su quelle esposizioni mirabolanti, sud sud ovest, disposte fino a 450 metri sul livello del mare, sulle provvidenziali escursioni termiche e sui grossi sassi riflettenti il calore, sulla poca voglia di quei terreni a trattenere l'umido e su quel nucleo originario di vecchi ceppi quarantenni fino ai recenti impianti più "pensati", messi a dimora in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell'Università di Milano, poggia l'asserto.

A tutto questo si accompagna una conduzione agricola naturale e poco interventista se non nella severità dei diradamenti, per rese che quasi mai superano i 40 quintali per ettaro. A tutto questo si accompagna una conduzione cantiniera fatta di lieviti indigeni, acciaio ma anche tini di rovere per fermentare, botti medio-grandi e tempi lunghi per affinare (4 anni per il Brunello), nessun filtraggio prima di imbottigliare. Dalla nuova cantina ampliata e riveduta ne ricavi un senso di rispettosa naturalezza per i cicli di lavoro che deve ospitare: dallo studio delle correnti d'aria all'umidità assistita della bottaia, dall'amatissimo nastro di cernita manuale all'impianto a caduta per i vari passaggi senza stress. Una concezione enologica che si muove attenta fra arcaismi e misurata tecnologia, con alla base una cura scrupolosa delle materie prime. Dalle giaciture ai diradamenti ti arriva poi un'altra sorpresa, da ché non diresti - se stai ai vini - di trovarti nella zona meridionale di Montalcino, tendenzialmente indicata ( e perseguita) dai più per accrescere calore, alcol e potenza, così come non ti spieghi - ad una lettura disattenta e superficiale - perché le rese basse in vigna non creino qui evidenti concentrazioni . In questi vini invero hai sì alcol sicuro (che però non percepisci), hai sì una solida struttura e una intelaiatura tannica a maglia stretta, adombrate però dalla silhouette tutta sussurri e niente grida della loro essenza. Qui hai intrecci a sfumare, trasparenze, eteree consistenze, candore di frutti rossi macerati, macramé autunnali di ghianda, anice e fumo, idiosincrasie aromatiche che si armonizzano solo dopo prolungate ossigenazioni, timbriche profonde e mai sbandierate, battiti minerali di coinvolgente beatitudine, rarefatte voluttà in odor di Borgogna. Qui hai vini complici e nudi, che della nudità fanno una ricchezza. Nel Rosso di Montalcino 2002 per esempio ho colto una tenerezza commovente, una sensuale cremosità naturale, una evoluzione controllata a regalare un abbraccio caldo e amorevole. Nel Rosso di Montalcino 2001 grip e ricchezza estrattiva, laddove il più dotato millesimo pare aver trasposto in lui un quid di potenza in più, mai disgiunto dalla delicatezza dei tratti, di armoniosa seduzione. Dal Brunello di Montalcino 1999 un naso carnoso, profondo e sentimentale, dai riflessi di mandorla e pinolo, tamarindo e cardamomo, per un palato dall'affondo ricco e vibrante, croccante nella matrice tannica, elegiaco nel lungo finale fumé. Dal nuovo Brunello di Montalcino 2000 la volontà del suo frutto, rosso maturo, di emergere e circuire con le spezie forti a corredo. Da lui una felpa e una tessitura elettive, un sussurro gentile di fiori, un balsamo e una vertigine, di terra e lievità.

Sono vini diversi e personali, fintamente anacronistici, che qualcuno vuol dipingere come alfieri integerrimi della tradizione. Fors'anche Piero. Non nego che in alcune annate abbiano peccato di essenzialità e fin troppa evoluzione a discapito di nerbo e progressione. Ma il tempo passa, le vigne si equilibrano, l'uomo impara a conoscerle, ed ecco che con maggiore regolarità quei vini ti rendono l'anima di una terra. Concetti come tradizione e innovazione allora, di fronte al rutilare dei sensi eccitati, perdono di definizione e sfumano in secondo piano. Persino la tempesta di un giorno, quel giorno, si è placata in ossequioso rispetto. Il resto è solo musica, musica per musicisti e per chi musicista non lo è.

Visita in azienda effettuata nel mese di settembre 2005

Nelle foto: Piero Palmucci con sullo sfondo Castelnuovo dell'Abate; vigne sulla schiena d'asino; la bottaia; il Brunello.

Fattoria Poggio di Sotto di Elisabeth e Piero Palmucci-
53020 Castelnuovo dell'Abate - Montalcino (SI)
Tel.:0577.835502 - Fax: 0577.835509


24 ottobre 2005