Dolcetto
Il 2018 è un rosso di discreto slancio e buona freschezza. Personalmente ho scoperto che sta eccezionalmente bene con la gricia (a pranzo) e con il pollo con le olive (la sera). È quindi molto “gastronomico”, direbbero i competenti.
Il fatto che riporti in etichetta la denominazione Dogliani mi ha fatto pensare a una vecchia discussione avuta con una nota produttrice della zona. Ella aveva preso alcune considerazioni elogiative della vitalità fruttata dei Dolcetto – presenti in un’edizione della vecchia guida dei vini “espressica” – come un’indiretta sottovalutazione della complessità dei migliori Dogliani. Che sono appunto dei Dogliani, e non dei semplici Dolcetto. Certo, ci mancherebbe. Un grande Dogliani è un grande rosso, così come en passant lo è un Ovada, con i suoi toni autunnali e la sua austera intensità aromatica.
Senonché, con il dovuto rispetto per le grandi bottiglie di Dogliani storici, che trascendono l’uva di base per approdare a esiti di superiore forza, ricchezza, longevità, io mi tengo stretti i Dolcetto semplici, immediati, beverini. Rossi elementari, spesso. Ma franchi e golosi. Come in questo caso.
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Brutto anatroccolo
Tra capiscitori di vino è saldamente apprezzato e tramandato il motto per cui “il vino buono nasce buono, non lo diventa con il tempo”. A un primo sguardo, e a un secondo sguardo, e perfino a un terzo sguardo, è una sentenza difficile da contestare. Senonché l’ars stappatoria, con le sue infinite e temibili varianti, si incarica volentieri di scardinare convinzioni pure granitiche come questa.
Prendiamo la base, l’equivalente vinoso di rosa/rosae/rosae/rosam/rosa/rosa: “il vino nasce buono, poi magari può avere una fase di chiusura dove nasconde le sue virtù, poi con la maturità torna a essere espressivo”. Non c’è dubbio che un’infinità di vini appartengano a questa declinazione. La maggioranza dei vini di qualità, nei fatti.
E allora un bevitore che si imbatte in un caso non contemplato, in una specie non classificata, che deve pensare? Del tipo: avevo comprato tre bottiglie del rosso taldeitali. La prima faceva cacare. La seconda pure. Come mai la terza, che avevo dimenticato in cantina, è buona? Spiegazioni comuni:
a) sarò io che non ci ho capito una mazza le prime volte
b) oggi ne so più di vino rispetto a prima
c) le prime due saranno state bottiglie difettose
Esiste un’ipotesi d), che la mente del bevitore si rifiuta in media di contemplare: lo stesso vino può essere stato difficile e sgraziato da bere da giovane, e ottimo da bere da maturo e/o da vecchio. La casistica non è nutrita, certo. Capiterà una volta su cento. Però accade.
Un esempio? Alcuni vecchi Nuits Saint Georges di Gouges: il 1993 o il 1996, per dire, duri e scartavetranti en vin jeune, austeri ma “risolti” da maturi. Lafite 1975 o 1988: peperonosi e vegetali en vin jeune, vellutati da maturi.
Una controprova simile, sebbene non proprio in coincidenza perfetta con la tipologia “cattivo da giovane/buono da vecchio” ma più dalle parti di “scontroso da giovane/eccellente da maturo”: il Carema Riserva 2011 dei Produttori omonimi. Boisé, contratto, un po’ ruvido fino a qualche anno fa, serico, delicato, ricamato oggi.
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Barbera
Ignoravo invece che La Raia producesse anche una Barbera. Ieri sera ho bevuto l’annata 2018 e l’ho trovata molto buona. Nonostante i minacciosi 14,5 gradi di volume alcolico specificati in etichetta, il vino non mostra caratteri caldi ma ne propone viceversa molti di carattere rinfrescante. Netto, senza pasticci e ingombri di toni legnosi, senza nemmeno una sottolineatura nei toni fruttati, fila via liscio, su binari tranquilli.
Una delle migliori versioni di Barbera provate da tempo.
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