Da Giglio Porto si sale ai circa 400 metri di Giglio Castello e da lì parte una piccolissima dorsale verso sud che regala fantastici declivi per le vigne. Bellissimi da vedere, meno da lavorare, come ben sanno i pochi produttori della zona. Si parla di viticoltura eroica, di muretti a secco e terrazzamenti in luoghi spesso impervi e sperduti, dove diventa difficile qualsiasi lavorazione. Da queste parti il viticoltore non lo fai per caso, è una scelta che nasce dall’amore per questa isola, per la sua disarmante bellezza selvaggia, e da una passione immensa per il vino.
Il vino qui è sempre stato un valore aggiunto; dai tempi degli Etruschi la viticoltura è andata in crescendo e ai tempi dei Romani il vino del Giglio vantava già una certa fama. Erano coltivati a vite circa 500 ettari, praticamente un quarto (!) della superficie disponibile, mentre oggi solo una quindicina godono di tale privilegio.
Ho avuto occasione di incontrare tre giovani produttori, tre piccole realtà che trasudano questi sentimenti, con i quali è fin troppo facile familiarizzare grazie alla loro semplicità, alla voglia di farti partecipe dei loro progetti e a tanta, tanta simpatia.
Diversamente da quello che scrivo di solito, voglio raccontare brevemente le loro storie e poi descrivere il loro “Ansonaco” (l’Ansonica lì viene chiamata “Ansonaca” e il vino “Ansonaco”) più in generale che nello specifico di ogni bottiglia perché, tolte le differenze legate a macerazioni più o meno prolungate e agli affinamenti condottti in vasi vinari di materiali diversi, nei loro vini vi ho riscontrato un’identità territoriale come difficilmente mi è capitato da altre parti.
L’avventura parte quasi per gioco quando decidono di lasciare la tabaccheria di famiglia per seguire i propri desideri, così nel 2002 fanno la loro prima vendemmia e nel 2009 escono con la prima etichetta. Chi frequenta i ristoranti del Giglio non potrà fare a meno di notare le loro etichette, che riportano la caratteristica espressione locale “Senti oh”.
Nel 2014 si unisce Manfred Ing, enologo sudafricano che lavora pure lui da Querciabella. Nel 2016, invece, i troppi impegni costringono Dales a lasciare l’impresa. Parlare con Simone è come incontrare un vecchio amico, assaggiare il suo vino in mezzo alla vigna e di fronte al mare mi fa stare bene, ti senti in armonia con la natura, percepisci che stai gustando una linfa vitale. Tra un discorso e un bicchiere di vino comprendi il perché di tanti sacrifici, perché si è disposti ad attraversare mezza Toscana e un tratto di mare per venire a curare nei weekend questo piccolo paradiso.
Tornata al Giglio ha messo su l’azienda Parasole, nome derivato dal soprannome del nonno la cui statura, come si può arguire, pare fosse notevole. In totale si contano 5 parcelle diffuse sull’isola per un’estensione di circa 6000 mq e una produzione di appena 1500 bottiglie. L’età delle vigne spazia dai 50 anni per quelle più vecchie a qualche anno per quelle più recenti a causa dei reimpianti resisi necessari per il riassesto dei filari e per colmare alcune fallanze. Ci incontriamo a margine della strada che scende verso Campese, dove si trova una piccola parcella posta su una bellissima terrazza a circa 200 metri di altezza affacciata sul mare sottostante. L’impatto visivo è notevole, resto fermo e in silenzio per qualche istante ad ammirare il panorama. È alla sua seconda vendemmia e la voglia di migliorare ed espandersi è tanta ma, come già riferito dagli altri produttori, acquisire nuovi terreni qui è un affare piuttosto macchinoso, poiché durante il periodo di dominio dei Medici ci fu una frammentazione incredibile dei terreni e oggi queste piccole particelle hanno stuoli di eredi/proprietari che complicano e non poco ogni possibile trattativa.
L’”Ansonaca” è un vitigno che ama il mare e su questa isola riesce ad esprimersi al meglio. L’”Ansonaco” è un vino solare che si apre su sentori fruttati di albicocca, susina gialla, pesche nettarine, corbezzolo e un tocco di agrumi, poi la macchia mediterranea e l’elicriso, sul finale talvolta si può percepire anche un po’ di miele di acacia. Al palato è più lo iodio che il granito a dominare, l’unione crea una vena sapido-minerale che scava a fondo e amplifica l’intensità di quanto già percepito all’olfatto. L’acidità non è da meno e tiene egregiamente la parte. La persistenza è notevole e la chiusura è leggermente ammandorlata. Con macerazioni più lunghe è facile avvertire anche i tannini. È un vino che per struttura e complessità si presta bene all’invecchiamento, l’importante è resistere a non aprire le bottiglie!
Questi tratti distintivi li ho percepiti netti in tutti i gli “Ansonaco” assaggiati. Volendo entrare più nel merito ed evidenziare qualche peculiarità:
Passiamo poi a due vini diversi: il primo, il Cocciuto 2019, è un esperimento che prevede 6 mesi di affinamento in anfora non trattata, i sentori di frutta virano su quella esotica, mentre al palato si evidenzia anche la nespola con accenni di frutta secca; è un vino piuttosto asciutto, con tannini presenti, ma soprattutto è un vino molto giovane e ancora piuttosto slegato.
Il secondo è un passito, il Nantropò 2019 – nome direi praticamente onomatopeico – che raccoglie le uve dalle vigne più vecchie di Capel Rosso; i grappoli sono fatti appassire su dei graticci dai 25 ai 40 giorni, segue la schiccatura a mano, la “frullatura”, l’aggiunta di mosto fresco e la fermentazione sulle bucce in acciaio fino a dicembre. Naso intenso di un bel mix di frutta disidratata, anche esotica, mandorle dolci, ricordi floreali e sentori vegetali di tipo officinale; al palato è rotondo e morbido ma sempre armonico e non stucchevole.
Di questo vino mi hanno colpito le molteplici sfumature, la parte floreale, di elicriso e lentisco soprattutto, e quella vegetale di macchia mediterranea con quel particolare sentore officinale che capita di avvertire, ad esempio, nel vermouth bianco. È un vino che va bevuto fresco, non ghiacciato, per apprezzarne la ricchezza aromatica e “questa vena sapido-minerale che da tanta parte dell’ultimo palato la persistenza infonde”.
Parasole – Strulli 2019. Torniamo a un vino più classico, o meno estremo che si voglia dire. Devo riconoscere che, per essere alla seconda vendemmia, Milena ha fatto un gran lavoro, soprattutto sapendo che lavora in una cantina-garage su a Giglio Castello e si serve di un vecchio torchio verticale in legno. È un vino che rispecchia in pieno la descrizione generale fatta in premessa, solare e sapido come sa essere questo vino baciato dal mare. Nei progetti di Milena ci sono altre etichette e mi auguro vivamente di poterle assaggiare quanto prima.
P.S. il tempo è tiranno e non ho potuto incontrare Cesare Scarfò. Mi dicono di lui che sia un’altra persona da conoscere assolutamente, il più “verace” fra i produttori gigliesi. Durante un giro su un vecchio gozzo ci siamo fermati a pescare qualche riccio di mare ed è sbucata una bottiglia del suo Ambrato di Radice 2016. L’intensità e la sapidità del riccio hanno trovato una sponda perfetta in questo vino fortemente tradizionalista, un po’ estremo ma decisamente affascinante nella sua tipologia, un connubio azzeccato per un aperitivo che più gigliese non si può!
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