Il romanofono e gli assaggi di fine estate

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Premessa sinottica

L’annata 2001 è tra le due o tre più grandi dell’ultimo mezzo secolo in Mosella. Esticazzi, dirà il romanofono. C’è però un ma: e se aggiungessi che non pochi 2001 si trovano ancora in vendita? E che a prezzi relativamente contenuti si portano a casa Riesling di eccezionale brillantezza, roba da far sembrare l’accecante Stella del Sud (uno dei diamanti più famosi dell’Ottocento: 261 carati da grezzo, valore stimato attuale sui 90 milioni di euro) un pezzo di cartone?

Un esempio pescato a caso online, il celebre Ȕrziger Würzgarten Riesling Spatlese Dr Loosen, vino ricco di meraviglia, che si accatta per meno di 40 eurozzi. Quindi animo, i bianchi tedeschi si rimediano ancora a prezzi in media inferiori al loro reale valore.

Assaggio
A fine agosto, cioè pochi giorni fa, un caro amico ha stappato uno stratosferico Graacher Domprobst Riesling Spätlese 2001 di Willi Schaefer e gli astanti sono caduti in ginocchio. Il colore non tradiva una permanenza in bottiglia di vent’anni: giallo dorato molto vivo, senza flessioni verso l’ambra. Quello che una volta veniva chiamato bouquet era sontuoso e anche estremamente tollerante: permetteva infatti al bevitore di slanciarsi nei più improbabili accostamenti analogici senza indispettirsi. Spezie, ovviamente, frutti – in parte freschi e in parte disidratati -; tutta la serie degli olii essenziali distillati in Maghreb (agrumi, lavanda, vetiver, legno di cedro, salvia, e via verso l’infinito).
Dattero”, chiosavano dal capotavola: accolto.
Zenzero”, aggiungeva un commensale: accolto.
Pasta di mandorle”, si levava da una sedia di fronte: accolta.
Insetticida”, rilanciava uno dei più alterati dall’alcol: respinto, stavolta.

Il gusto, cosa te lo dico a fare, gareggiava con la sua controparte eterea nello sfornare sfumature a getto continuo. Non gli sono stato dietro nella trascrizione mentale dei rimandi, quindi non inanello altri termini. Su tutto, una freschezza luminosissima a innervare il sorso.
Insomma: una bevuta che ha sfiorato l’esperienza mistica.
In presenza di vini simili anche l’inarginabile energia cinetica di un grande bianco di Borgogna sembra la tranquilla passeggiata al parco di un settantenne.

Premessa sinottica
Conosco davvero poco i vini del Friuli. Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. Quando ho iniziato a bere e a scrivere di vino, più di trent’anni fa, i vini friulani – o quantomeno quelli che giungevano nella Capitale – attraversavano una fase fortemente convenzionale sul piano stilistico: i bianchi erano spesso acquosi, pressoché inodori e insapori; i rossi altrettanto spesso piatti e anticomunicativi. Da allora, a difetto di una verifica sul campo, una parte di me ha alimentato in forma carsica – è il caso di dirlo – questo anacronistico luogo comune.

In epoca di guida espressica (2003-2014) gli specialisti della regione Giampaolo Gravina e Fernando Pardini portavano agli assaggi finali bottiglie di alto valore, intense ed espressive. Ma per me il Friuli rimaneva un territorio remoto e ignoto sul piano geografico ed enologico. Una recente trasferta in loco, lungi dall’aver ridotto sia pure in parte la mia radicata ignoranza in materia, mi ha definitivamente convinto che sia terra di vini eccellentissimi. Fatte n’artro sonno, dirà il romanofono.

Assaggi
Oltre a un prodigioso Kai Paraschos (leggi qui), mi hanno colpito varii altri prodotti alcolici friulani. Nel taccuino mentale pesco oggi le note su due o tre vini dell’azienda del Carso Castelvecchio. Il sito aziendale propone un excursus storico lievemente esteso: da Plinio il Vecchio a Marie Della Torre Valsassina- Hofer-Hohenlohe-Thurn (scomparsa nel 1934). Noi tralasciamo questi duemila anni e passiamo a volo d’uccello sulla produzione, che è certificata biologica in vigna e prevede un’enologia moderna – o convenzionale o non vinnaturista o come cavolo si voglia definirla, tanto ci siamo capiti -, senza lati di particolare originalità.

La Vitovska 2020 ha slancio vitale, proporzioni perfette nella sua semplicità, bella dinamica e finale grintoso. Buono ma più tranquillo l’andamento gustativo della Malvasia 2020, che paga anche il dazio di una frazione alcolica non timida (14,5 gradi dichiarati in etichetta). Il vero capolavoro è il Cabernet Franc 2016, uno dei più rari conseguimenti in terra italica ottenuti dall’omonima varietà: finissimo nell’estrazione tannica, modulato nello sviluppo gustativo e ricamato all’olfatto. Ottimo, ma su un registro più compatto e sanguigno, il  Cabernet Franc 2018, che rispetto al fratello più anziano mostra un – controllato – aspetto rustico nel sapore.

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Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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