I vini in cui si avverte in primo piano la confezione, ovvero i procedimenti con i quali sono stati ottenuti, la mano dell’enologo, le tecniche di affinamento, sono molto spesso – per non dire sempre – vini di scarsa naturalezza espressiva. Vini “fabbricati”, “costruiti”, figli di un’enologia invadente. La loro controparte sono i vini che i francesi chiamano “sans signature”, senza firma, in cui la lavorazione di base è talmente misurata da non dichiararsi, da essere impercettibile.
Su questo asse produttivo, che si può anche con una certa forzatura inscrivere nel dualismo vini convenzionali/vini naturali, si muove la vinicoltura attuale, in un eclettismo che accoglie esiti diversi, in tutte le gradazioni possibili.
Mi sento a disagio con i due estremi della scala: bevo con dispiacere sia il prodotti leccati e impomatati, progettati a tavolino, freddi come un piano di marmo, sia i vini scapigliatissimi, che al palato scappano da tutte le parti, di selvaggia indomabilità.
Un buon punto di conciliazione tra le due polarità del vino in doppio petto e del vino incendiario è rappresentato da un rosso di semplicità quasi disarmante, a partire dall’etichetta, che recita laconicamente: “Vino rosso”. E basta.
Lo producono Barbara e Giuseppe Pusceddu: il cognome dovrebbe orientare anche il lettore meno attento alla geografia antropica verso l’isola de’ sardi (e l’altre che quel mare intorno bagna). Ci si trova difatti nelle campagne di Villasimius, una delle località più orientali dell’isola. Un punto che guarda idealmente, a una trecentina di chilometri verso sud-est, la sicula Trapani. Il nome della loro azienda, Meigamma, significa in dialetto locale quella che a Roma si chiama pènnica , ovvero “dormita post prandiale”. La vigna, piccola, sta a mezzo chilometro dal mare.
Da quanto mi dicono Giuseppe ha lavorato per Gianfranco Manca, ispirato benché irreperibile e misterioso vignaiolo di Nurri, un po’ più a nord. E difatti lo stile di questo rosso è imparentabile: fresco, arioso, “sciolto”, pieno di succo, è sostenuto – a tratti fors’anche un po’ aggravato – da un’acidità volatile certo non timida.
Personalmente tollero una quota anche significativa di note di volatile, quindi me lo sono bevuto con grande soddisfazione. Come nel caso di Manca, non è dato di sapere che uve si impieghino; la locuzione usata è la stessa, un generico “uve autoctone”. Una bottiglia di stile libero, che non ammicca né ai vinnaturisti più barbarici, né tantomeno ai rossi perfettini dell’enologia più ortodossa. Da cercare senza temere di svuotare il portafoglio.
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