«La vigna ha bisogno di severità e qui ne trova quanta ne vuole»
Riccardo Giorgi
Saliamo a bordo del trenino a cremagliera per inerpicarci lungo le aspre pendenze della rupe che ci sovrasta. Non è la prima volta che percorro una monorotaia delle Cinque Terre (anzi, la precedente esperienza, sempre con Yvonne, l’avevo raccontata proprio su queste pagine: LEGGI QUI ), ma è sempre un’emozione. Questa volta ho fatto un breve video dell’esperienza.
Arriviamo sulla cima della Costa del Corniolo, che collega Manarola a Riomaggiore, in località Ginestra, da dove si vede un ampio scorcio di Riomaggiore con i ruderi del castello medievale (costruito nel 1260, terminato nel XVI secolo) che spicca sul borgo. Attorno ci sono 3.500 metri quadri di terrazze abitate da vecchie vigne a pergola e a piede franco immerse in una vegetazione primaverile aulente e colorata. Un angolo di eden viticolo e naturalistico che Riccardo Giorgi e Adeline Maillard hanno recuperato dall’abbandono in cinque strenui anni di lavoro.
«La prima volta che ho visto questo vigneto, ed era messo male, ho perso la testa. Mi ha in un certo senso indicato la via che dovevo seguire». Era il 2017.
Classe 1987, Riccardo ha studiato Viticoltura ed enologia all’Università di Pisa e ha fatto l’apprendistato in alcune cantine toscane (tra cui Podere Riparbella e Caiarossa) prima di arrivare a Bordeaux per uno stage. Doveva rimanere lì otto mesi, sono diventati otto anni. Frequenta l’Università di Bordeaux ed entra nell’équipe tecnica di Denis Dubourdieu, facendo esperienze nei cinque Château che al tempo il celebre enologo francese gestiva (Reynon, Doisy Daëne, Cantegril, Haura, Floridène) e diventando poi maître de cave a Doisy Daëne.
Grazie a Dubourdieu conosce Marco Simonit e Pierpaolo Sirch: ha visto nascere la loro succursale francese, di cui è stato il primo tecnico. Nel frattempo, a Château Giscours (Margaux) conosce Adeline Maillard, che si occupa di marketing e che diventerà la sua compagna di vita e d’avventura. A metà del 2020 lascia, a malincuore, il gruppo Frescobaldi – nel cui progetto «bello e ambizioso» era entrato nel 2018, diventando l’enologo di Tenuta Perano, nel Chianti Classico – per dedicarsi interamente alle sue vigne nelle Cinque Terre. Una scelta di vita, un richiamo del terroir.
«Dal compromesso all’acquisto sono passati due anni e mezzo e ce ne sono voluti cinque per ripulire il vigneto dai rovi e dall’erica, per ristrutturare i muri a secco che erano franati (non ne facevamo più di 8 metri quadri al giorno per un totale di 400), per ricostruire le pergole che erano state coperte o spaccate dai sassi. Non ho contato i voli dell’elicottero per portare su i sassi. C’era così tanto legno secco e improduttivo che, tagliandolo e tagliandolo, mi chiedevo se fosse rimasto qualcosa: le vigne erano messe davvero male, ma oggi stanno bene e quando le vedo così sono contento, è una sensazione appagante. Io e Adeline abbiamo cercato di recuperare le vigne antiche, farle risorgere, anziché reimpiantarle, per conservare il loro patrimonio identitario. Cerchiamo la purezza. Lavoriamo con poco intervento ma con una consapevolezza più critica rispetto ai nostri vecchi. Vorrei diventare come loro, un vero contadino: oggi si rischia di perdere la trasmissione del sapere».
Qui dimorano vitigni locali come bosco, albarola, vermentino, ruzzese, scimiscià, picabon e, nella parte prefillossera del vigneto, una varietà da tavola, piantata da un signore di Manarola, che potrebbe essere l’uva regina o l’uva Italia: l’Università di Pisa sta indagando per effettuarne il riconoscimento.
«Durante la ricostruzione dei muri a secco la vigna rimane a terra accucciata e si deve arrangiare: solo in un secondo momento costruiamo il pergolato e la tiriamo su. Sembra un vigneto piantato a caso, invece è stato pensato tenendo presente l’esposizione, la presenza del bosco e dell’acqua, il microclima e altro: i vecchi sapevano quello che facevano. Qui la brezza è costante e ci permette di trattare poco o nulla. Bisogna solo stare attenti all’umidità del mare verso sera: la brezza rallenta, diventa statica e l’oidio rischia di fregarti».
È un vigneto basso, antico, disposto a 200-250 metri di quota su terrazze scalari tra l’azzurro del cielo e il blu del mare che tendono a confondersi verso l’orizzonte, la cui striscia violetta sembra una barriera corallina. I ceppi vecchi e curvi mostrano la vocazione rampicante della vite.
«Le viti sono talmente basse che serve lo stecco sotto il grappolo per tenerlo staccato dal suolo. Le piante più grosse prendono dai 4 ai 5 metri quadri di spazio, le altre un metro e mezzo. Cerco potature più precise con canali puliti e ramificazione aperta, senza cicatrici: i vecchi accecavano le prime gemme e dovevano tagliare meno raso per permettere la circolazione della linfa. La vigna ha bisogno di severità e qui ne trova quanta ne vuole».
Il logo aziendale è il “rampin”, la zappa bidente.
«Quando si estende per bene, l’uva bosco bene perde le foglie basali e lascia il grappolo nudo: con la controspalliera si scotterebbe mentre la pergola lo protegge dal sole ombreggiandolo e anche dal vento, dove la spalliera farebbe un “effetto vela” con il serio rischio di perdere i germogli. Le acidità rimangono più vive nella pergola rispetto al filare».
C’è un rustico, che qui chiamano “baracca”. Gli giriamo intorno per scendere a piedi lungo scale arcaiche.
L’altro vigneto si trova sopra Vernazza: 6.500 metri quadri di basse pergole suddivisi in due appezzamenti tra i 450 e i 550 metri di quota nel grembo della roccia montana. Lo vediamo da un punto panoramico sulla strada verso la cantina.
«L’altitudine dell’alta valle di Vernazza conferisce freschezza. Siamo più lontani dal mare, tutt’intorno c’è la foresta, il suolo è più profondo e argilloso: il sasso grigio qui si sgretola meno rispetto alla vigna di Riomaggiore. Qui nasce l’Amante dei Venti, un Cinque Terre di alta quota dove il bosco fatica a maturare: dentro c’è soprattutto albarola».
Arriviamo quindi a San Bernardino, frazione di Vernazza: un manipolo di poche case in un borgo silenzioso e appartato, lontano dal formicolio del turismo di massa. Si scorge dall’alto la spiaggia di Guvano, un tempo frequentata da hippy e nudisti, e il borgo di Corniglia.
Dietro il Santuario di Nostra Signora delle Grazie (costruita nel XIX secolo sulle fondamenta di una cappella medievale, presenta forme romaniche e ha un bel campanile), si nasconde la cantina di Riccardo e Adeline, che si trova proprio sotto la casa: un piccolo vano che contiene qualche vasca d’inox, tre clayver e una mezza barrique da 125 litri. Il suo nome è Cián du Giorgi (i cián sono le terrazze) e produce circa 4.000 bottiglie annue. «Siamo qui dal 2020. Durante il Covid abbiamo lavorato il doppio».
«I nostri vini arrivano per il 99% dalle vigne e per l’1% dalla trasformazione. Fermentazione spontanea, sosta sulla feccia integrale senza mai essere mossi e senza aggiunta di solfiti fino all’imbottigliamento. Per me è stato forte il passaggio dall’enologia bordolese del controllo a una come questa più spontanea e intransigente».
L’etichetta di questa e delle altre bottiglie è opera di Susie Barrow, un’artista gallese che vive a Vernazza da più di vent’anni.
«Le uve delle Cinque Terre hanno la testa dura come la gente di qui: fanno come vogliono loro, non riesci ad addomesticarle».
Ha colore paglierino intenso quanto cristallino. «È il rapporto dare/avere, avanti/indietro, delle bucce, un equilibrio di colore e tannino». Profumi di fiori gialli e increspature salmastre. Palato di frutta gialla, con tannino cospicuo, “gastronomico” quanto bilanciato. Finale inebriante. «All’inizio andava sulla rusticità per la troppa cessione. Dal 2021 l’estrazione, anziché andare a picco, è più lenta: sul lungo termine si ritrova lo stesso stile ma con più eleganza». Nelle migliori annate, come questa, il vino fa una specie di “ripasso” sulle bucce dello Sciacchetrà.
Già, lo Sciacchetrà, la pietra angolare delle Cinque Terre, un vino turistico ridiventato negli ultimi due lustri, grazie soprattutto all’operato di alcuni vignaioli, uno dei passiti più personali e carismatici d’Italia, riappropriandosi così del ruolo da primattore che gli spetta di diritto per storia e vocazione.
«Raccolgo i grappoli più sani facendo più passaggi, dai tre ai cinque, come ho imparato a Sauternes. I primi a fine agosto nelle vigne più vicine al mare, dunque più precoci, per arrivare a fine settembre con le vigne più alte. L’appassimento dura fino “al momento giusto”, che di solito cade a novembre, poi sgraniamo i grappoli appassiti a mano, acino per acino, come si faceva un tempo. Qui c’è un rigore puro, senza compromessi. Il 2020, prima vendemmia prodotta, ha fatto un anno in anfora più un secondo passaggio in acciaio o damigiana per la sedimentazione, ma in futuro voglio eliminare l’acciaio».
Il 2020 ha colore ambrato intenso, un olfatto intriso di sentori plurimi di ginepro, miele, castagno, noce, frutta secca intinta nel salmastro del mare. Al palato sembra di sorseggiare un Vin Santo, un Vin Santo delle Cinque Terre: che senso di buccia e di uva passa, che viscosità, che contrasto, che gheriglio di noce, che scia salmastra!
Assaggiamo poi il 2021 dalla vasca. Ha un profilo differente: il colore è dorato, non ambrato. La parte aromatica vira verso un’albicocca secca assai golosa e più in generale verso un cesto invitante di frutto mediterraneo e candito. La nitidezza è cristallina. Riccardo è indeciso sulla strada da imboccare: produrre ancora uno Sciacchetrà in versione tradizionale (ambrato/frutta secca), lasciandolo correre verso lidi ossidativi, o reinterpretarlo, seguendo i modelli del Sauternais, in chiave più moderna (dorato/frutta candita)? Gli dico la mia. Anche lui sembra pensarla come me. Il prossimo anno scoprirò cos’ha deciso.
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Contributi fotografici di Massimo Zanichelli e Britta Nord