Mancavo da Parigi (città della Francia, nota nazione europea) da quattro anni. Come prima impressione dopo il quadriennio, annoto che i guidatori sono passati in media da aggressivi/premium a veri pirati della strada: passaggi con il rosso, tentativi di investimento dei pedoni senza pietà, tagli di strada, invasioni di corsia, uso partenopeo del clacson. Come confronto – del tutto arbitrario e ascientifico – a Roma siamo molto più disciplinati. Il che è tutto dire.
Anche a Parigi ci si muove entro una massa ondeggiante di bipedi umani di ogni provenienza. Presenti in speciale misura sulla collina di Montmartre. Qui l’ultraturismo ha scacciato dalla pittoresca Place du Tertre gli storici caricaturisti e bozzettisti da strada (peraltro residuali da tempo). Al loro posto opera adesso un mangificio (non “magnifico”: mangificio) tentacolare, che invade la piazzetta con fitte file di tavolini. A giudicare dalla folla di avventori, per questo locale si può parlare agevolmente di PIL, prodotto interno lordo, più che di fatturato annuo.
A pochissima distanza, forse due o trecento metri, la fiumana di gente si disperde e appare, nel disinteresse generale, la piccola vigna di Montmartre. Presente qui da molti secoli, la vite venne spiantata nel 1928, per poi essere rimessa a dimora pochi anni più tardi, con del gamay e del pinot nero. La superficie è risibile: duemila metri quadrati, meno della metà della metà di un ettaro. Il vino che se ne ottiene è stato a lungo considerato modesto, addirittura più o meno un presidio medico per aiutare la diuresi:
“C’est du vin de Montmartre, qui en boit pinte en pisse quarte“; “è vino di Montmartre, chi ne beve una pinta ne piscia una quarta” (laddove una pinta equivaleva a poco meno di un litro, e una “quarta” a 67 litri).
Oggi ospita 30 vitigni diversi e da qualche vendemmia pare si cerchi di elevarne la qualità. Nel 2016 è arrivato all’uopo uno stimato enologo (ma non sono stato in grado di rintracciarne le generalità). Con un coup de théâtre imprevedibile un ragazzo* del limitrofo, celebre cabaret Au lapinagile (“al coniglio agile”) me ne ha fatto assaggiare un bicchiere, previa esibizione delle credenziali di “critico enologico”, “avvinazzato italico certificato”, “beone anziano carta argento”. Per sua sfortuna era incautamente in piedi fuori del locale e mi ha fatto qualche domanda di troppo, beccandosi tutta la tiritera sul degustatore professionista e piripì e piripà.
E il vino? com’era il vino? era un rosso particolarmente leggero, diafano, dai toni vegetali all’olfatto, non privo di una sua grazia e delicatezza al palato. Certo, un migliaio di bottiglie prodotte annualmente non lo rendono di agevolissimo reperimento. Ma in fondo si tratta di storia.
*avrà avuto 40/45 anni: per me in ogni caso chiunque abbia meno di 50 anni è da rubricare come “ragazzo”.
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