Ho trovato per caso online un gioco simile a firma nientemeno che del grande Michel Bettane: “i dieci Bordeaux della mia vita”*.
https://bettanedesseauveasia.com/the-10-medocs-of-my-life/
Forse per lui non sarà stato un gioco, ma un serio esercizio della memoria.
Premette Bettane: “è difficile, se non impossibile, dopo quarantacinque annate in cui seguo regolarmente i vini del Médoc e centinaia di bottiglie straordinarie che restano impresse nella mia memoria, individuarne dieci senza alcuna ingiustizia”.
Sì, perché questo distingue una lista simile da una – ben più pericolosa – categorizzazione gerarchica. Qui le gerarchie e i punteggi non c’entrano. E non è nemmeno – almeno a me non pare – l’esercizio fatuo del bevitore che si vanta delle sue stappature illustri.
C’entra, direi, la descrizione di un teatro interno, dove i personaggi si muovono su una scena scritta in anni e anni di esperienza. Decenni, nel suo caso.
Un teatro interno che ogni amante dei vini si è creato nel tempo, e che costituisce lo spazio mentale in cui, più o meno inconsciamente, si misurano le proprie migliori bevute. In altre parole: con lo spirito giusto, cioè senza autocompiacimento, la rappresentazione del teatro interno delle bevute storiche è importante per dare un senso e una prospettiva alle bevute attuali.
Non starò a citare tutti gli Château che Bettane ha scelto, si possono leggere in dettaglio nella suddetta pagina, che non è a pagamento. Nella lista sono inevitabilmente presenti alcuni mostri sacri, Lafite e Latour. Ma mi ha fatto piacere leggere di alcuni Château a torto considerati minori: da Meyney, una mia vecchia passione (qui è citato con entusiasmo nientemeno che il 1929) a Malescot Saint Exupery, un Margaux dalla personalità piuttosto libera e scapigliata, almeno prima che ne “normalizzasse” lo stile Michel Rolland.
Per rimando analogico ovvio, sono riandato alle bottiglie di Bordeaux che sono rimaste impresse nella mia memoria, e il cui ricordo innaffio regolarmente negli anni con l’acqua della idealizzazione. Ne trascrivo quattro, per non farla troppo palloccolosa, come dicono qui a Roma.
Non è necessariamente il Bordeaux più straordinario che io abbia provato, ma è di sicuro quello che mi ha più emozionato. La prima volta in cui l’ho bevuto, appena arrivato sugli scaffali, era già preceduto da un’aura di eccezionalità (cento centesimi del famoso/famigerato Parker). Il che, come sappiamo, anziché ben disporre di solito accentua i sospetti e fa salire troppo le aspettative: che in casi simili vengono difatti regolarmente deluse. E invece, guarda un po’, mi apparve da subito un vino prodigioso, ricco senza essere opulento e troppo carico, generoso senza essere troppo tannico, persistentissimo senza perdere slancio e bevibilità. L’ho ribevuto, ringraziando il cielo, non poche volte da allora. Si è sempre confermato su quel livello. Oggi anzi ha raggiunto un grado di maturità che gli dona un equilibrio apollineo ancora più luminoso.
Château Latour 1959
Bevuto accanto al suo leggendario e celebratissimo fratello minore (come età) del 1961, gli ha dato una pista per delicatezza aromatica, finezza serica dei tannini, progressione gustativa e finale irradiante. Un vero capolavoro, un Latour in versione meno monumentale è più “borgogneggiante”, se mi si passa l’eterodossissimo accostamento.
Non oso pensare a cosa sarà oggi, dato che come tutti sanno Latour è tendenzialmente un rosso eterno (è molto difficile se non impossibile reperire un Latour ossidato, anche da annate minori: a meno che non si stato conservato in piena luce sullo scaffale di un’enoteca a Nairobi o tenuto una mezz’ora in un microonde).
Château Cheval Blanc 1929
A dire la verità non lo ricordo nei dettagli aromatici e gustativi, sono passati più di trent’anni da quell’unica bevuta. È perciò il ricordo che più ho infiorettato, verosimilmente un terzo dell’ammirazione che provo è frutto della costante innaffiatura di idealizzazione. Sta di fatto che mi sembrò un rosso di una finezza e di una gentilezza di tocco sublimi. Cheval Blanc nella sua forma più quintessenziale.
Château Pichon Comtesse de Lalande 1982
Si sa che la fama di Robert Parker è partita proprio dalle sue recensioni entusiastiche sulla vendemmia 1982. Di questo millesimo il guru statunitense scrisse meraviglie, e difatti rimane a tutt’oggi una delle annate più costose e ricercate. Nella pletora di grandi riuscite si citano sempre Margaux, Cheval Blanc, Pétrus, Mouton, Lafite, ma nei miei ricordi il più sfolgorante degli ’82 è senza dubbio Pichon Lalande, un vino di una complessità aromatica degna di un bazar di spezie della medina di Algeri e di una perfezione gustativa sorprendenti.
* l’ho trovato in una pagina in inglese, non sono riuscito a trovare la versione originale in francese