La rappresentazione del teatro interno delle bevute

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Ogni forma di idealizzazione è pericolosa, perché “non esiste alcun grande uomo che sia tale agli occhi del suo cameriere”, come più o meno scriveva Hegel. Senza un frammento, una pennellata di idealizzazione, tuttavia, ogni aspetto della vita assume una tinta fredda e ostile. Non esiste dunque alcun grande vino che sia davvero tale se osservato troppo da vicino, con gli occhi severi e non complici dell’analista. È sempre necessaria una quota di adesione entusiastica, di leggera deformazione della realtà, pure di esagerazione, per giocare alla vertigine della lista di echiana memoria. Senza gioco, indulgenza, iperboli, perfino un Romanée Conti 1999 appare un rosso qualsiasi (e quindi: “è un vino sopravvalutato, ma che scherziamo”).

Ho trovato per caso online un gioco simile a firma nientemeno che del grande Michel Bettane: “i dieci Bordeaux della mia vita”*.

https://bettanedesseauveasia.com/the-10-medocs-of-my-life/

Forse per lui non sarà stato un gioco, ma un serio esercizio della memoria.
Premette Bettane:  “è difficile, se non impossibile, dopo quarantacinque annate in cui seguo regolarmente i vini del Médoc e centinaia di bottiglie straordinarie che restano impresse nella mia memoria, individuarne dieci senza alcuna ingiustizia”.

Sì, perché questo distingue una lista simile da una – ben più pericolosa – categorizzazione gerarchica. Qui le gerarchie e i punteggi non c’entrano. E non è nemmeno – almeno a me non pare – l’esercizio fatuo del bevitore che si vanta delle sue stappature illustri.
C’entra, direi, la descrizione di un teatro interno, dove i personaggi si muovono su una scena scritta in anni e anni di esperienza. Decenni, nel suo caso.

Un teatro interno che ogni amante dei vini si è creato nel tempo, e che costituisce lo spazio mentale in cui, più o meno inconsciamente, si misurano le proprie migliori bevute. In altre parole: con lo spirito giusto,  cioè senza autocompiacimento, la rappresentazione del teatro interno delle bevute storiche è importante per dare un senso e una prospettiva alle bevute attuali.

Non starò a citare tutti gli Château che Bettane ha scelto, si possono leggere in dettaglio nella suddetta pagina, che non è a pagamento. Nella lista sono inevitabilmente presenti alcuni mostri sacri, Lafite e Latour. Ma mi ha fatto piacere leggere di alcuni Château a torto considerati minori: da Meyney, una mia vecchia passione (qui è citato con entusiasmo nientemeno che il 1929) a Malescot Saint Exupery, un Margaux dalla personalità piuttosto libera e scapigliata, almeno prima che ne “normalizzasse” lo stile Michel Rolland.

Per rimando analogico ovvio, sono riandato alle bottiglie di Bordeaux che sono rimaste impresse nella mia memoria, e il cui ricordo innaffio regolarmente negli anni con l’acqua della idealizzazione. Ne trascrivo quattro, per non farla troppo palloccolosa, come dicono qui a Roma.

Château Mouton-Rothschild 1986
Non è necessariamente il Bordeaux più straordinario che io abbia provato, ma è di sicuro quello che mi ha più emozionato. La prima volta in cui l’ho bevuto, appena arrivato sugli scaffali, era già preceduto da un’aura di eccezionalità (cento centesimi del famoso/famigerato Parker). Il che, come sappiamo, anziché ben disporre di solito accentua i sospetti e fa salire troppo le aspettative: che in casi simili vengono difatti regolarmente deluse. E invece, guarda un po’, mi apparve da subito un vino prodigioso, ricco senza essere opulento e troppo carico, generoso senza essere troppo tannico, persistentissimo senza perdere slancio e bevibilità. L’ho ribevuto, ringraziando il cielo, non poche volte da allora. Si è sempre confermato su quel livello. Oggi anzi ha raggiunto un grado di maturità che gli dona un equilibrio apollineo ancora più luminoso.

Château Latour 1959
Bevuto accanto al suo leggendario e celebratissimo fratello minore (come età) del 1961, gli ha dato una pista per delicatezza aromatica, finezza serica dei tannini, progressione gustativa e finale irradiante. Un vero capolavoro, un Latour in versione meno monumentale è più “borgogneggiante”, se mi si passa l’eterodossissimo accostamento.
Non oso pensare a cosa sarà oggi, dato che come tutti sanno Latour è tendenzialmente un rosso eterno (è molto difficile se non impossibile reperire un Latour ossidato, anche da annate minori: a meno che non si stato conservato in piena luce sullo scaffale di un’enoteca a Nairobi o tenuto una mezz’ora in un microonde).

Château Cheval Blanc 1929
A dire la verità non lo ricordo nei dettagli aromatici e gustativi, sono passati più di trent’anni da quell’unica bevuta. È perciò il ricordo che più ho infiorettato, verosimilmente un terzo dell’ammirazione che provo è frutto della costante innaffiatura di idealizzazione. Sta di fatto che mi sembrò un rosso di una finezza e di una gentilezza di tocco sublimi. Cheval Blanc nella sua forma più quintessenziale.

Château Pichon Comtesse de Lalande 1982
Si sa che la fama di Robert Parker è partita proprio dalle sue recensioni entusiastiche sulla vendemmia 1982. Di questo millesimo il guru statunitense scrisse meraviglie, e difatti rimane a tutt’oggi una delle annate più costose e ricercate. Nella pletora di grandi riuscite si citano sempre Margaux, Cheval Blanc, Pétrus, Mouton, Lafite, ma nei miei ricordi il più sfolgorante degli ’82 è senza dubbio Pichon Lalande, un vino di una complessità aromatica degna di un bazar di spezie della medina di Algeri e di una perfezione gustativa sorprendenti.

* l’ho trovato in una pagina in inglese, non sono riuscito a trovare la versione originale in francese

Fabio Rizzari

Giornalista professionista. Si è dedicato dalla fine degli anni Ottanta ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica professionale. Ha collaborato con Luigi Veronelli Editore, casa specializzata in critica enologica e gastronomica, e dal 1996 ha lavorato, come redattore ed editorialista, presso il Gambero Rosso Editore. È stato collaboratore e redattore per la Guida dei Vini d’Italia edita da Gambero Rosso Editore e Slow Food. È stato per diversi anni curatore dell’Almanacco del Berebene del Gambero Rosso Editore. È stato titolare, in qualità di esperto di vino, di diverse rubriche televisive del canale tematico Gambero Rosso Channel. È stato relatore per l’AIS, Associazione Italiana Sommelier. È stato membro del Grand Jury Européen. Dal 2003 al 2015 è stato curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida I Vini d’Italia pubblicata dal gruppo editoriale L’Espresso. Del 2015 è il suo libro “Le parole del vino”, pubblicato dalla Giunti, casa editrice per la quale ha firmato anche – insieme ad Armando Castagno e Giampaolo Gravina – “Vini da scoprire” (2017 e 2018). Con gli stessi due colleghi è autore del recente “Vini artigianali italiani”, per i tipi di Paolo Bartolomeo Buongiorno. Scrive per diverse testate specializzate, tra le quali Vitae, il periodico ufficiale dell’AIS.

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