Gustosamente pellegrini

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Cosa fareste voi se un vostro amico vi chiamasse e vi chiedesse “mi accompagni a Torino per due giorni a vedere la Sindone? Offro io.”? Beh, credenti o non credenti, avreste iniziato a preparare anche voi la valigia! E poi con una certa noncuranza sacrificale, in tema con la sacra reliquia, avreste sbadigliato un timido “sì” facendo intendere che sarebbe stato proprio un favore da grande amica… per poi esultare un secondo dopo. Ci pensate? Andare a Torino completamente spesata! A Torino! La città dei caffè storici! Dei gianduiotti! Del Bicerin! E… beh sì via, anche della Sacra Sindone!

E quindi siamo partiti, mossi un po’ da turistica curiosità, mossi un po’ da trentenne superstizione impregnata del tipico non-ci-credo-ma-non-si-sa-mai, e anche un po’ da sogni viziosamente golosi. E come tutte le partenze c’è stato un arrivo. Molto bello, trionfante di sole e di colori di una città che spesso associavo solo alla FIAT e ad immagini di cieli grigi come le fabbriche e volti grigi come i cieli, e che invece si rivelava intensa e piena di vita, con torinesi, pellegrini e semplici turisti che si affollavano per le vie e per le piazze ridendo, scherzando e perdendosi un po’. Tuttavia, come spesso succede, vicino ad ogni luce c’è la sua ombra. E purtroppo il primo gastro-impatto è stato traumatico. Durante il giro del centro storico siamo finiti in una piazza dove si svolgeva una piccola fiera eno-gastronomica di prodotti delle campagne vicine e, presi dal solito “languorino” toscano, ci siamo incautamente avvicinati ad un banco che traboccava di schiacciate e focacce promettenti paradisi caserecci. Eh beh, sedotti dal profumo e accecati dalla fame non abbiamo visto il piccolo cartellino che indicava i 29,00 euro di costo al chilo, e, come per magia, ma magia proprio nera, ci siamo trovati appesantiti una mano da un’anoressica striscia di schiacciata alle cipolle e l’altra alleggerita da ben 6,00 euro! Beh, sicuramente state pensando che la fregatura dovevamo da ignari pellegrini prenderla, tuttavia era forse più un’espiazione per punire la nostra cedevole gola dato che la schiacciata era caratterizzata da notevoli sapori stantii. La muffa o qualcosa del genere stava facendo capolino e si stava preparando ad esplodere in tutta la sua intensità. Non vi dico i risultati dopo! Soltanto le successive valanghe di gianduiotti potevano rimediare. Sciolti amorevolmente in bocca durante la visita a Palazzo Madama naturalmente.

Palazzo Madama, così chiamato perché dal 1637 con Maria Cristina di Francia fu eletto a dimora delle madame reali, testimonia nella sua struttura l’avvicendarsi di secoli di storia dell’architettura a partire dall’età romana. Costruito su quella che era la porta della città all’epoca romana, il palazzo in periodo medievale fu trasformato facendolo diventare un fortilizio a difesa della città, e solo all’inizio del ‘400, con Ludovico D’Acaia, il castello assunse un aspetto più vicino a quello attuale. Nel periodo barocco invece, Maria Giovanna di Savoia-Nemours, vedova di Carlo Emanuele II, affidò all’architetto Filippo Juvarra un ammodernamento del palazzo che lo rese quello che oggi noi vediamo, e anche se il progetto era sicuramente più ambizioso e non fu mai completato, rimane oggi un ampio scalone che ti fa sentire un po’ una Cenerentola del 2000, persa tra i grandi spazi chiari di un passato ancora affascinante. Dal 1934 ad oggi, Palazzo Madama ospita il Museo Civico d’Arte Antica, mentre in quella che era stata la grande Sala del Senato si trovano spesso esposizioni temporanee d’arte.

E in un palazzo così intriso di storia, architettura, arte antica e moderna, come potevo non gustare ciò che dal passato rimane sempre vivo nel nostro presente e che associa il nostro palato all’arte piemontese del cioccolato? Quindi, svergognatamente golosa, sono salita per l’enorme scalone scartando rumorosamente un piccolo oggettino ricoperto di una pellicola dorata che svelava al suo interno una morbida tentazione di cioccolato: un gianduiotto pronto da sciogliere in gola. Lanciato commercialmente nel 1865 dalla Caffarel, il gianduiotto, primo cioccolatino incartato, sembra sia nato per caso nel 1806 a causa del blocco napoleonico che costrinse i cioccolatieri piemontesi ad impastare cacao e zucchero con delle nocciole delle Langhe finemente tritate. Il nome poi si deve a Gian d’la duja, tipica maschera piemontese, simbolo della lotta che si combatté in Piemonte per l’indipendenza nel 1799. E quindi che cosa c’è di meglio che mangiare un po’ di storia in un palazzo che di storia ne ha vissuta così tanta? E percepire i grandi spazi che ti circondano con gli aromi ampi del cioccolato e della nocciola che si sprigionano all’interno della tua bocca? E assaggiare, anche se in modo strano, un po’ di tradizione?

Certo che poi il sapore è poi iniziato l’amaro destino del turista fatto di code interminabili e annunci di biglietti in esaurimento per i principali musei torinesi. Ma anche di sole, e di feste per il 25 Aprile, concerti gratuiti per una città che ha voglia di festeggiare, foto assurde fatte accanto a statue strane o vicino al museo del cinema, il tutto sotto l’occhio del secondo edificio più alto d’Italia. Ebbene sì, dai suoi 167,5 metri la Mole Antonelliana, costruita nel 1863 dall’architetto Alessandro Antonelli, da cui prende il nome, sorvegliava maestosa tutta la fauna umana che si era riunita a Torino quel giorno e su di me e il mio gastro-complice mentre, tra storia e monumenti, gianduiotti e qualche caffè, amici da salutare e piccole soste nei punti più caratteristici della città, ci siamo avventurati nel Quadrilatero torinese. Questa zona ricca di locali dove poter bere un semplice caffè, fare un breve aperitivo, cenare o passare la serata, offre sicuramente a chi viene a Torino un’ottima occasione per conoscere la città by night e per divertirsi un po’ dopo tutta la cultura respirata durante la giornata. E ottimi squarci della cultura enogastronomica piemontese.

Il ristorante Pautasso, trattoria informale situata in piazza della Repubblica, ci ha accolto con la sua cucina tradizionale fatta con prodotti chilometro zero, vale a dire tutti provenienti dal paniere del circondario torinese. Abbiamo potuto quindi degustare un ricco tagliere di salumi da assaggiare con un po’ di burro e poi toma, formaggi erborinati, robiola. Insomma un po’ di tutto per assaggiare un po’ di Piemonte. Ma tra tutte le portate, un piatto ha preso tutta la mia attenzione: i tajarin alla salsiccia di Bra accompagnati da una caraffa di barbera della casa. I tajarin, delle sorte di tagliolini, sono una pasta tipica piemontese così come la salsiccia di Bra fa parte dei salumi tipici del territorio piemontese. Preparata con carne magra di vitello, pancetta di maiale, sale, pepe, spezie, aromi naturali, il tutto macinato finemente e insaccato nel budello naturale, un tempo veniva preparata solo con carne bovina per soddisfare le esigenze della comunità ebraica di Cherasco che chiedeva salumi senza carne suina. Con il tempo poi, soprattutto per evitare l’irrancidimento della carne, fu aggiunta una piccola parte di maiale, riuscendo però a non alterarne troppo il sapore. In molti siti si trova scritto che è un tipo di salsiccia che si può mangiare sia cruda che cotta. Beh, io da inesperta l’ho assaggiata cotta, come sugo dei tajarin e ammetto che il risultato era ottimo. Il grasso e l’untuosità che lasciava in bocca era minima ed anche il sapore era sicuramente più delicato anche se obiettivamente persisteva e lasciava alle papille gustative un buon ricordo. Un primo sicuramente da provare soprattutto per chi viene da fuori e vuole trovare in un solo piatto un ottimo esempio della tradizione culinaria piemontese. E da provare lì, in quell’ambiente informale e gioviale dove la qualità e il servizio meritano sicuramente molte lodi così come il loro menù dettagliato e ricco, anche se un po’ caro. Ma, si sa, chi va in pellegrinaggio e non rispetta il digiuno lasciandosi andare ai piaceri della gola, in qualche modo dovrà pagare, in tutti i sensi, il proprio peccato.

Il giorno dopo è iniziato il pellegrinaggio vero e proprio, e il primo passo è stato mosso verso la meta iniziale del viaggio: la Sacra Sindone. Telo di lino conservato nel Duomo di Torino sul quale si può vedere l’immagine di un uomo che porta segni di maltrattamenti che ricordano quelli subiti da Gesù, così come sono descritti nel Vangelo, la Sacra Sindone nei secoli è stata ritenuta il telo che avrebbe avvolto Gesù nel sepolcro. Tuttavia, così come spesso accade, tra religione e scienza c’è una lotta continua e altrettanta lotta c’è dentro ogni persona tra fede e scetticismo. Quello che ho visto non sono stati miracoli, né ho avuto visioni celestiali, però ho visto sicuramente l’emozione di tante persone che nel bene o nel male, tra tesi, preghiere, discussioni e miscredenze, erano lì unite da un credo comune ed anche forse dalla voglia di sperare. Perché alle volte, come diceva mia nonna, non è tanto l’oggetto che salva, quanto la fede in ciò che quell’oggetto per te rappresenta. Diciamo una vecchia formula del più moderno “l’importante è crederci” e del più scettico “l’importante è essere convinti”.

E dopo tanta devota concentrazione, il pellegrinaggio è allegramente continuato per le strade di Torino alla ricerca del fantomatico bar dove Cavour e Vittorio Emanuele II avrebbero brindato all’unità d’Italia. Ebbene, la ricerca non ha dato i frutti sperati, ma, come in ogni buona epifania, si è rivelata davanti ai nostri una chicca: Mulassano! Situato sotto i portici di Piazza Castello, nel 1925 il bar Mulassano dette i natali ai primi tramezzini italiani. Parenti dei famosi sandwhich d’oltremanica, furono battezzati così da Gabriele D’Annunzio che volle cercare un nome totalmente italiano per quel buffo panino triangolare costituito da due fette di pancarré contenente salumi, formaggio, verdure o altro. E la fama è stata rispettata, servita su una deliziosa alzata, presa tra le dita con una smorfia un po’ retrò e poi mangiata e gustata, e poi mangiata e poi gustata. E, in questo aperitivo imbottito di storia, sul nostro tavolo non potevano mancare anche due piccoli bicchierini con un liquido ambrato e non eccessivamente amaro che è nato proprio nella città torinese, cioè il Vermouth.

Il Vermouth (o anche Vermut) è un vino liquoroso aromatizzato ottenuto da vini bianchi non aromatici, zucchero e piante aromatiche tra le quali spicca l’assenzio maggiore, una pianta dal odore molto intenso e il sapore amaro. Fu inventato nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano a Torino che scelse il nome rielaborando il termine Wermut con il quale in tedesco si definisce l’assenzio maggiore. Il Vermouth diventò poi famoso in tutto il mondo grazie ad un’altra ditta di Torino, la Martini e Rossi, dalla quale poi la bevanda trasse il nome con cui adesso tutti la identificano. E per festeggiare uno dei maggiori successi italiani nel mondo ci siamo lasciati sorprendere un vino che per quanto liquoroso, riusciva a mantenere un ottimo equilibrio tra il dolce e l’amaro, evitando gli eccessi e risultando essere un buon passatempo del gusto. Perché sì, in una città che sembra così industriale e frettolosa, si trova sempre il tempo per fare un aperitivo pigro e lezioso, mentre la gente scorre davanti ai propri occhi.

Come il gusto vuole, dal salato siamo passati al dolce e come ultima tappa non potevamo non fermarci al Caffè Al Bicerin, il caffè preferito di Cavour. Nato nel 1763 quando il signor Dentis apre la sua piccola bottega davanti al Santuario della Consolata, il locale scuro ed arredato in modo semplice, è rimasto come duecento anni fa, ed è stato tra i primi caffè a Torino a servire insieme ad acqua e cedrata i prodotti misteriosi arrivati da lontano: caffè, tè, cioccolata. Queste parole nel XVIII secolo suonavano strane, i sapori e gli odori erano nuovi, sorprendenti e gustosi. Tuttavia, proprio a questi prodotti il caffè Al Bicerin deve la sua fama e la sua storia. Perchè il “bicerin” stesso l’imperdibile bevanda di questo caffè, un’accorta miscela di caffé, cioccolata calda fondente e crema di latte. Molto accorta, gustosa e golosa, anche se effettivamente un po’ calorica. Ma non si può andare via da Torino senza averla assaggiata almeno una volta… e magari anche più di una, anche solo per capire meglio tutte le sfumature che può avere una cioccolata fatta bene mentre si sposa con il caffè e il latte. Un triangolo strano, armonioso, anche se alle volte si accende in piccoli contrasti che dicono alla bocca “non ti scorderai mai di noi”.

E sarà difficile infatti scordarsene. E sarà un buon motivo per tornare, per girare di nuovo per la città e per respirare un po’ di storia assaggiando qua e là…

Maria Lucia Nosi

3 COMMENTS

  1. Dopo un racconto del genere non si può non prenotare subito un viaggio a torino sperando di trovare le stesse emozioni del tuo viaggio….

  2. scusa Maria Lucia …. metterei a posto la data della Mole Antonelliana…. Il 1964 è un po’ troppo recente…poi qualche torinese s’arrabbia….
    ciao

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