CAMPI BISENZIO (Fi) – Bravi. Bravi e fortunati i campigiani, intesi come abitanti di Campi Bisenzio, borgo alle porte di Firenze. Fortunati perché possiedono nella tradizione gastronomica una ricetta fortemente caratterizzata. E bravi perché a quanto pare non hanno voglia di abbandonarla, anzi hanno voglia di mantenersi in allenamento visto che appena il giornalista Leonardo Romanelli, spalleggiato da una pimpante amministrazione comunale, ha lanciato l’idea di istituire una competizione, anzi un Palio per la migliore esecuzione da svolgersi ai fornelli di casa, si sono presentati ben quattordici cuochi “di famiglia” per cimentarsi nell’impresa, oltre a quattro circoli ricreativi; e le loro opere sono passate sotto il giudizio di una giuria formata da giornalisti ma anche da vecchie glorie e giovani rampolli della ristorazione fiorentina (rispettivamente Gabriele Torchiani del Targa Bistrot e gli chef Enrico Panero del Da Vinci – Eataly e Simone Cipriani del Santo Graal) abituati a pensare e comporre sapori con precisione millimetrica, e qui piacevolmente stupiti dalla forza della tradizione.
Pecora in umido, dunque: innanzitutto, qui la materia prima va opportunamente addomesticata, ossia frollata. È questa operazione preliminare che fornisce alla preparazione un carattere specifico, dandole in qualche modo già una interpretazione, imprimendole un tocco personale: quanto il carattere “selvatico” della carne si pecora va attutito o va mantenuto? Va annullato o va solo smorzato? La ricetta, poi, appartiene alla categoria degli umidi: quindi, soffritto classico, rosolatura ed aggiunta di salsa di pomodoro, che è l’altra importante variabile, un po’ come nel ragù: in alcune parti d’Italia, e in alcune famiglie, lo si fa più rosso, in altre meno.
Ma insomma, per entrare nel dettaglio: la preparazione n. 1 possedeva un carattere elegante, una carne tenera e idratata, ma era forse troppo “asettica”, poco “selvatica”. Per dire, la n.3 della signora Nicla Manetti che avrebbe poi vinto la competizione, mostrava gli stessi pregi con un tocco di personalità in più, qualche speziatura e piccantezza a vivacizzare. La n. 2 aveva una spezzatura un po’ curiosa, la si sarebbe potuta scambiare per un ragù. La n. 4, spiccatamente dolce ed aromatica, presentava una carne morbida anche se con qualche fibrosità ed una curiosa doppia consistenza con una parte quasi cremosa che, come da tradizione, poteva andar dritta a condire le pappardelle. Più di una preparazione era “afflitta” da un poco estetico (ed appetibile) fondo d’olio, mentre la n. 8 era viziata da un clamoroso errore di preparazione, una assenza di frollatura che se da una parte rendeva la consistenza piuttosto coriacea, dall’altra era rivelatrice dei coinvolgenti caratteri olfattivi di questa tipologia di carne. Poi, via via le altre versioni: la n. 13, priva praticamente di pomodoro e molto “oliosa”, era però tenera e succosa, la n. 14 sfoggiava sapori vividi e invitanti per il palato, caratteri mostrati anche dalla preparazione del Circolo San Martino vincitrice nella propria sezione con ai fornelli la signora Franca Desii Pagnini.
L’auspicio è che il Palio della pecora in umido sappia negli anni ratificare e “metter nero su bianco” la voglia di propagare questa tradizione di generazione in generazione , coinvolgendo anche i più giovani delle famiglie, facendo comprendere loro che stare ai fornelli non è perder tempo ma confrontarsi con la natura e con la realtà.
E anzi: borghi d’Italia, perché non prendere esempio e organizzare tutti un bel Palio dedicato alla vostra ricetta più popolare e sentita?
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