Cosa vi aspettate di mangiare negli States? Hamburger? Certo, anche quelli. Ma ciò che diventa veramente inevitabile, specialmente se alloggiate in albergo, è altro. E’ la super carica di colesterolo mattutina: pancetta e salsiccia, uova strapazzate e pancake, panetto di burro su pancarré fritto. Oppure, massima gloria della cucina sudista, un ribollente gravy (nient’altro che il sughetto grasso lasciato dagli arrosti di carne, addensato con farina e altro, eccone una versione!) versato su un accogliente panino al latte. La ormai ubiqua colazione continentale raggiunge qui il suo apice e, almeno per un italiano abituato a caffè, latte e biscotti (cappuccino e brioche), la tentazione è irresistibile. Sarà forse anche per il jet lag che trasforma la colazione in pranzo, ma ogni mattina le migliori buone intenzioni (yogurt e frutta?) si infrangono sullo sfrigolìo della pancetta calda. Meno male che a stemperare il tutto soccorre un bel bicchierone di caffè lungo, ma anche qui la vostra forza di volontà verrà messa a dura prova di fronte alla vexata quaestio: skimmy milk, full, half&half ?
Eccolo, il simbolo della dicotomia alimentare statunitense, mentre fioriscono i cibi e i ristoranti organic, mentre nei menu vi offrono i piatti antiossidanti e sulle bibite impera il calorie zero. L’americano medio, ed io con lui, non resiste di fronte a questo piccolo concentrato di grassi: half&half, mezzo latte e mezza panna! E così sia, anche il caffè darà il suo contribuito energetico alla giornata.
Giornata che a San Jose, baricentro della Silicon Valley, scorre frenetica con una breve sosta per pranzo da Aqui Cal-Mex, una cucina messicana che punta all’estetica, per quanto si possa fare in un pranzo di lavoro. I piatti sembrano quasi tavolozze, i colori caldi del paese ispanico risultano appetitosi, decisamente più dei sapori, un po’ omologati ai gusti statunitensi, cremosi, “concilianti”… Beh, non era certo il miglior messicano della Silicon, o forse sarà perché si vanta di essere “natural wild organic” e non soffrigge abbastanza pancetta e cipolla?
Torno in centro (downtown) con la mia prima esperienza di Uber. A guidare un settantenne che mi dice di farlo solo un paio di ore al giorno, per sentirsi attivo e per comprarsi l’attrezzatura per la fotografia. Pensionato, lavorava alla National Semiconductor e, riconoscendo il mio accento, mi dice: “sono nato a Lucca, mio padre è emigrato quando avevo 9 anni”. Ok, il mondo è piccolo, ma così lo è proprio tanto! Ci scambiamo un po’ di impressioni sulla vita in California, anche in italiano, che pur dopo tanti anni un po’ è rimasto. Di cognome fa Del Frate, da parte di mamma Mancini: proprio gente di casa mia.
Parentesi da raccontare quella dei tassisti, Uber o non Uber. Truffaldini a New York (pareva di essere in note città italiane), gentilissimi e chiacchieroni in California, dove fra gli altri ti incontro un somalo, anch’esso “parlicchiante” italiano, che mi impartisce una piccola lezione di economia (che pure ha studiato) e di accoglienza. “Qui negli Stati Uniti l’immigrazione è un valore. Tra coloro che arrivano ci sono persone acculturate e capaci, che hanno fame di riuscire. Non c’è nessuna preclusione e le aziende si arricchiscono con queste competenze. All’Italia ci vorrebbe un primo ministro che avesse studiato qui e che conoscesse l’inglese, allora sì che cambiereste mentalità!”. Avrà fatto riferimento a persone reali?
Che dire? Ognuno ha le sue croci… tanto è vero che un amico, statunitense al 100%, mi accoglie all’arrivo con questa frase: “Welcome to the wacky USA. Where we have cartoon characters running for President…” (Benvenuto negli stravaganti Stati Uniti. Dove abbiamo due personaggi dei cartoni che concorrono per le presidenziali…). E ha pienamente ragione, basta accendere la TV per rendersi conto della inconsistenza dei due pretendenti al trono, peccato che nella nostra provinciale Italia la mediazione e traduzione giornalistica facciano sembrare il tutto quasi una cosa seria!
Torniamo a San Jose, dove il tempo a disposizione fugge via e bisogna scegliere il posto per cena. Ci attira un popolare barbeque, la Smoking Pig Barbeque Company, “un posto dove capire la differenza tra grigliare e affumicare“, come ci rende edotti il menu. Cosa che a dire il vero si capisce già prima di entrare, con l’odore di affumicatura che si spande per la strada. Cucina veramente southern e, ahimè, di nuovo pochissimo dietetica!
Scegliamo un combo: brisket (un taglio di manzo cotto a fuoco lento) e pulled pork, ovvero carne di maiale cotta e servita disossata. Carni tenere e saporite, buone da mangiare così come sono, gustose e deliziosamente affumicate, senza eccesso. E così noi facciamo, ma in questo siamo gli unici, perché nei tavoli accanto generose coperture di salsa barbeque annegano il lavoro del cuoco. Bella la carta delle birre, scegliamo una IPA e una Porter di Deschutes Brewery, un birrificio dell’Oregon, azzeccate per i piatti.
Il servizio è spartano, su vassoi d’acciaio, e il locale decisamente conosciuto, tanto che in pochi minuti i posti si esauriscono. Accanto a noi avventori variegati, giovani e vecchi, magri e grassi come solo qui si può esserlo. Ci sentiamo a nostro agio, la digestione sarà un problema da affrontare successivamente. Si è fatto tardi (a dire il vero sono le 19) ma la giornata è stata lunga. E il prossimo volo è domattina presto: si torna ad Ovest.
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