E si è capito poi che il problema è sempre lo stesso, quello della filiera, ossia di quella catena di soggetti che realizzano un prodotto e lo fanno arrivare fino al cliente. Nel caso dell’agroalimentare il primo anello corrisponde a coloro che a partire da terra, acqua e sole, più un bel po’ di fatica, generano la materia prima senza la quale nulla sarebbe possibile. E il paradosso è che alla fine proprio questo pare l’anello che soffre di più e che ci rimette in caso di crisi.
Si, perché uno dei punti chiave è proprio questo, capire se i profitti degli “anelli” sono equilibrati o no, un quesito sul quale permane, forse non per caso, una nebbia piuttosto fitta. Soprattutto perché in una economia di mercato assai mobile, alla catena si sostituisce una fisarmonica che si allunga e si accorcia a seconda del prezzo spuntato. E a quanto pare quando questa fisarmonica si stringe sembra proprio che il cerino in mano rimanga alla fine ai contadini e agli allevatori.
La cosa interessante è che, forse perché ultimamente si parla molto degli “ultimi” e di quelli che non ce la fanno, o perché abbiamo nella memoria gli Champs-Élisées invasi dai gilet gialli, queste persone semplici, disperate, che buttano per protesta il frutto del loro lavoro (ripetiamo, fra i più faticosi) hanno progressivamente riempito i siti internet, ma anche i programmi radiofonici, telegiornali e talk show. In tutte le occasioni si toccava con mano nei racconti una certa emozione e fors’anche una spontanea solidarietà.
Il Corriere della Sera? Zero assoluto e tocchi surreali. Il 13 febbraio, in piena agitazione per il Tav negato e infarcito di contorti retroscena politici, ignora la Sardegna e trova lo spazio per occuparsi di un ex campione di Formula 1 che produce mozzarelle di bufala in Inghilterra, a suo dire più buone delle italiane. Il giorno dopo, quando una intervista al ministro degli esteri francese merita la pagina 3 e quella al presidente del consiglio italiano la 6, trova il modo di dedicarsi alle “malghe da salvare”. Salvarle per poi, chissà, affamare anche lì gli eventuali allevatori di “vacche burline”.
Così, in un frullato di immancabili invettive contro il governo, recuperi radical chic della campagna (mentre chi ci lavora stenta a campare) e problematiche di parassiti e cambi climatici (che c’entrano poco con un problema di mercato), il Sole 24 Ore perlomeno dà voce con chiarezza alla sua parte. Antonio Auricchio, vicepresidente di Assolatte, sostiene che “è colpa degli allevatori” e ricostruisce così la vicenda: i pastori hanno “splafonato”, ossia hanno prodotto troppo; le imprese trasformatrici che da contratto “sono tenute a ritirare tutto il latte munto” sono state costrette ad abbassare i prezzi, anche perché la domanda del Pecorino Romano che si produce è scesa di un terzo soprattutto a causa del crollo del mercato Usa. D’altra parte, ha sostenuto impietosamente Piero Sardo, da sempre “guru” del formaggio a Slowfood, il Pecorino Romano è un formaggio “sbagliato”, troppo salato, e andrebbe diversificata la produzione.
E allora? Allora è vero, nessuno deve fare il furbo, neanche i pastori che devono impegnarsi a controllare le quantità. Ma, ci sentiamo di dire, salvaguardiamoli (sussidiamoli, anche) questi produttori di cibo, chiedendo in cambio qualità. È importante chi trasforma, chi trasporta, chi vende. Ma chi è stato designato a decidere cerchi di aiutare questo primo anello della catena dalle tendenze dei mercati che fra dazi, attenzioni salutistiche e altro sono sempre più imprevedibili. Perché altrimenti si rischia di rimanere con ben poco di buono nel piatto.
Foto La Presse tratta da ilsussidiario.net
Che la situazione della pastorizia sarda sia in questo momento molto critica è senz’altro vero. Ma bisogna anche dire a mio parere che si tratta della punta di iceberg che da anni affligge i pastori sardi. La forte concentrazione nella produzione del pecorino romano prodotto in Sardegna rappresenta secondo stime della regione , il 91 % della produzione totale di formaggi da latte di pecora. Questo pone i pastori e tutta la filiera in profonda difficoltà , dato che questo formaggio con un contenuto di sale così alto e un sapore così deciso incontra sempre meno il gusto del consumatore e sopratutto non consente in termini di spazi operativi ed economici, uno sviluppo di altri tipi di formaggi o prodotti caseari, magari più facili da collocare sul mercato interno e non. Un altro fattore che a portato alla situazione attuale sono le restituzioni che negli anni novanta e fino alla metà del primo decennio degli anni duemila hanno sostenuto l’esportazione verso gli USA. Tali sovvenzioni hanno spinto verso questa tipologia cooperative e privati. Quindi l’attuala situazione ha molti attori e molte responsabilità, e ritengo che comunque la protesta sia più che legittima ma anche bisogna comprendere che è necessaria una ristrutturazione del settore altrimenti il problema continuerà a riproporsi.