L’ansia del mondo del vino toscano, di identificare e asserire la propria identità, non conosce pause; il “la” lo ha dato il Chianti Classico con la rivoluzione delle U.G.A. (da pronunciarsi per l’amor di Dio una lettera alla volta, U-G-A, per evitare reminiscenze fantozziane…), le quali U.G.A. dopo lunghe discussioni hanno trovato (finalmente!) la propria ragion d’essere nella tipologia Gran Selezione (ed è vera emozione vedere l’indicazione territoriale in etichetta), una tipologia che il Chianti DOCG ha immediatamente copiato (pardon, mimato…), sostanziando in tal modo la propria aspirazione alla “premiumizzazione”.
Grandi l’irritazione e lo scorno nella famiglia del Gallo Nero, per l’appropriazione di un’idea che sentiva come cosa propria per averla inventata (ma purtroppo a livello legislativo/regolamentare non è così…). Intanto a Montepulciano è imminente il debutto delle Pievi, vere e proprie sottozone che promettono differenziazioni di terroir tutte da valorizzare e comunicare (punto importante e non scontato). E dopo tutto anche a Montalcino una fronda di produttori predica la necessità di una zonazione. E si potrebbe continuare….
Ma dette istanze, pur nelle rispettive peculiarità, hanno qualcosa in comune: una smania di associazionismo che nega e al contempo sublima l’italico campanile. Ovvero la consapevolezza dell’opportunità di unire le forze su istanze condivise, una tantum a larga maggioranza. Caso più eclatante l’unanimità (addirittura!) proclamata a Montepulciano in merito al progetto Pievi, tanto più su un tema spinoso come la definizione della nuova tipologia anche tramite parametri tecnico-analitici dei campioni da sottoporre per l’approvazione (con il Ministero competente che ha alzato più di un sopracciglio, timoroso di scoperchiare un vespaio al cui miele anelano i produttori…).
Anche qui, antesignano è stato il Chianti Classico: nelle more della definizione dei confini delle U.G.A., e nell’evidenza che i confini amministrativi comunali poco avevano a che fare con la varietà dei vini ivi prodotti, si è assistito allo sbocciare di associazioni di produttori che detti confini prendevano a pretesto (con un po’ di elasticità, vivaddio) per segnalare con orgoglio, e a gran voce, la propria diversità. Ha iniziato in tempi non sospetti Panzano, che si è coagulata dal punto di vista agronomico nell’adesione al biologico, con un virtuoso prototipo di scambio informativo tra i propri componenti per favorire la crescita comune.
In ordine sparso sono seguite (con vari gradi di peso specifico a livello di numeri di produzione, di capacità organizzativa nell’attirare su di sé l’attenzione della stampa specializzata e non, con relativo riscontro mediatico, e infine di effettiva caratterizzazione organolettica dei prodotti) Radda, Castellina, Greve (ma anche, con qualche ragione, Lamole e Montefioralle), Castelnuovo Berardenga (con un interessante progetto di identificazione e valutazione dei cru aziendali) e quindi anche Vagliagli e Gaiole (con la frazione di Monti in Chianti alla ricerca di una specifica riconoscibilità). Last but not least San Donato in Poggio, e mi si perdoni se mi sono dimenticato di qualcuno.
Ma se questo fermento, in sede di definizione normativa, qualche risultato lo ha pure portato, una conseguenza più di lungo periodo è quanto ciò abbia rappresentato un esempio da emulare, per comprensori che ne hanno anche più bisogno. Nel mare magnum del Chianti DOCG, ad esempio, con produttori medio-piccoli che ambiscono alla qualità, schiacciati dalle economie di scala di giganteschi imbottigliatori che giocano un campionato diverso in termini di pervasività commerciale, le sottozone di questa quasi onnicomprensiva simil-“denominazione di ricaduta” hanno iniziato ad ambire a una visibilità che significhi percezione del loro valore aggiunto; uno sforzo legittimo di costituire un porto sicuro per chi ricerca la qualità e non una commodity vinosa. Ovviamente con tutto il rispetto per i predetti imbottigliatori, le cui produzioni più economiche riempiono una nicchia di mercato che pure esiste, così garantendo anche la sopravvivenza di un numero significativo di coltivatori diretti.
Nell’ambito di questo fervore di iniziative, due sottozone si sono prodotte in questo sforzo associativo, divulgativo e mediatico: Montespertoli e Colli Fiorentini.
La cifra distintiva dell’ancor giovane Associazione pare essere quella del coordinamento degli sforzi dei singoli per la promozione comune, nella condivisione di informazioni ed esperienze agronomiche ed enologiche, nella promozione di pratiche di buona agricoltura (con l’accento sulla conduzione biologica del vigneto), nella sostenibilità, nel rispetto degli sforzi del vignaiolo che vinifica direttamente le proprie uve.
Tutto ineccepibile e tutto condivisibile, ma non particolarmente nuovo; identitario sì, o meglio propedeutico alla definizione di un’identità comprensoriale, ma in ciò non specificatamente riferibile alla realtà di Montespertoli. E questa identità, per il momento, mi pare ancora lungi dall’essere compiuta, anche se le intenzioni e l’entusiasmo sono dei migliori.
Confido peraltro che la forza vitale di questa giovane associazione di produttori possa peraltro fugare questo dubbio a breve: spirito e prospettive sono quelle giuste. Magari già in un Vinitaly turbato da pensieri foschi e prospettive inopinatamente negative, per ricusare le quali l’entusiasmo e lo spirito di collaborazione che si respirano a Montespertoli probabilmente sono il modo più efficace.
Questo in quanto i Consorzi di Tutela si danno per le denominazioni, e non per le relative sottozone, alcune delle quali però, nel calderone del Chianti DOCG, legittimamente lottano per la loro riconoscibilità. L’amico Ferretti ha sempre perorato la causa dell’esplicita indicazione della sottozona in etichetta, al fine di distinguersi da una dicitura anonima, più generica e indifferenziata, la cui immagine è inficiata dalla pervasività commerciale di etichette vendute in grandi numeri a prezzi troppo bassi per il break even di produttori più piccoli, che faticosamente tentano di fare (e vendere!) qualità.
Qualcosa di “caratteristico” in effetti in zona lo si rinviene. La struttura dei vini d’annata è di solito superiore a quella di analoghe etichette di comprensori limitrofi (con qualche rischio di stroppiare in sede di vinificazione, con estrazioni troppo allegre). Logicamente ne discende che le Riserve hanno ragion d’essere -vivaddio- anche oltre la convenienza commerciale, specie in certi mercati (es. Germania), e possono affrontare una certa evoluzione non semplicemente conservando la loro immediatezza fruttata, bensì ingentilendo la struttura e guadagnando in complessità. In questo contesto la frequentazione del canaiolo, da solo o in uvaggio, aggiunge all’arsenale dei produttori armi inusitate, con differenziazione aromatica e piacevole nervosità tannica.
Ciò non toglie che esso sia rilevante, una base rassicurante, in termini di identità che pare di riconoscere, su cui lavorare per affinare dette caratteristiche. Senza cedere alle sirene dell’aspirazione a produrre il vino “importante”, con l’opinione tutto sommato arcaica che ciò implichi una struttura imponente, un colore impenetrabile, un uso del legno necessariamente coprente. Vecchi stilemi, che una sempre maggiore consapevolezza condurrà a cancellare senza rimpianti: perché la vera grandezza, dalle parti di Firenze, la si può rinvenire nell’eleganza e nell’equilibrio.
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