Pantelleria, isola del sublime/2

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Khamma e Khamma-Tracino


Anticamente “Khamba”, dall’arabo khannab (canapa), “luogo dove si coltiva la canapa”, o Hamma, “contrada della sorgente calda”, Khamma è situata nella parte orientale dell’isola, curiosamente divisa tra un “Khamma fuori” e un “Khamma dentro”, e generalmente associata alla contrada Tracino (dall’arabo Traf, “punta”). È il nome di un celebre cru del Passito di Pantelleria di Salvo Murana (vedi oltre), ma è soprattutto il quartier generale di una delle più famose cantine siciliane, Donnafugata. I nudi numeri dell’azienda fondata da Giacomo Rallo (scomparso nel 2016) con la moglie Gabriella, oggi guidata dai figli Antonio e José, parlano da soli: 384 ettari sparsi nei principali luoghi del vino siciliano per un volume di 2.400.000 bottiglie annue, con le cantine storiche del 1851 e il centro d’imbottigliamento nella sede di Marsala, i 283 ettari della tenuta scenografica di Contessa Entellina, le recenti acquisizioni del 2016 sull’Etna (a Randazzo) e nella zona di Vittoria (ad Acate).

E poi c’è Pantelleria, dove la famiglia Rallo ha cominciato a investire dal 1989, con ben 68 ettari di zibibbo lungo 14 contrade (Khamma, Punta Karace, Tracino, Mueggen, Ghirlanda, Serraglia, Gibbiuna, Barone, Martingana, Monastero, Bukkuram, Bugeber, Karuscia, Favarotta), che mappano tutto l’areale più importante dell’alberello pantesco. A Khamma la tenuta si estende lungo la forma di un anfiteatro per 13 ettari di terrazzamenti che salgono verso il Monte Gibele mentre guardano il mare. Un’opera di certosino recupero e dedizione assoluta realizzata da un affiatato gruppo di viticoltori/agricoltori/operai capitanati da Salvatore Barraco.

Negli ultimi venticinque anni Donnafugata ha recuperato qualcosa come 20 chilometri di muretti a secco in pietra lavica, contribuendo in modo decisivo alla sostenibilità del territorio. Diversi alberelli sono centenari, a piede franco, e molti di loro sono protetti dalle canne frangivento: durante il periodo della fioritura l’impeto del vento può essere letale. Accanto al centro accoglienza, nel dammuso a palazzetto dai colori chiari, e alle cantine di vinificazione, interamente rivestite in pietra lavica – il contrasto delle due unità produce bagliori accecanti sotto il sole dell’isola – c’è un mirabile esempio di giardino pantesco, uno dei meglio conservati dell’isola, recuperato con un paziente lavoro di restauro e donato al FAI nel 2008. Di pianta circolare, alto 4 metri e largo 8,5 (che diventano 11 all’esterno), contiene un albero secolare di arancio “Portogallo” e rappresenta l’erede moderno degli antichi giardini murati che simboleggiavano il grembo femminile.

Donnafugata produce una piacevole versione secca di zibibbo chiamata Lighea e un Moscato di Pantelleria, Kabir, dalla fragranza trasognata e dalla dolcezza temperata, muschiato e agrumato, fresco e godibile. Ma il vino da sempre più rappresentativo di tutta la produzione aziendale è, almeno secondo il gusto di chi scrive, il Passito di Pantelleria Ben Ryé, in arabo “figlio del vento”, che è un assemblaggio dei principali vigneti dell’isola, dalla precocità dello zibibbo di Martingana e Punta Karace al calore di quello di Khamma e Favarotta, fino alla freschezza più acida delle uve di Barone. La vinificazione è quella tradizionale dell’isola: appassimento delle uve per una quindicina di giorni e successiva sgrappolatura degli acini, aggiunti poi al mosto in fermentazione dello zibibbo raccolto a settembre per cedere colore, aromi, dolcezza.

Sono in compagnia di Baldo Palermo, che è qualcosa di più di un brillante ed efficiente responsabile della comunicazione aziendale: marsalese innamorato di Pantelleria, è uomo di cultura e squisito savoir-faire che conosce quasi tutti gli anfratti dell’isola. Davanti a noi una serie di bottiglie di Ben Ryé. In gioventù è un passito dal colore dorato e dall’invitante registro esotico: il 2016 sprigiona sentori di ananas, papaya, mango, agrumi canditi. In bocca è denso e succoso come un frutto tropicale, fresco e balsamico come un mazzetto di erbe aromatiche, godibile e irresistibile.

Il 2015 sfoggia all’olfatto un ampio ventaglio aromatico (rosmarino, fico, zagara) e un palato di bella ricchezza e seduzione, dove l’albicocca secca s’intinge nel lapillo vulcanico e la scorza d’agrume s’inebria di contrasti e sapori.

Il 2014 è il trionfo dell’albicocca e del rosmarino, di un naso che già infonde sensazioni tattili, di una bocca dolce, avvolgente, struggente.

Nel 2013 il colore comincia a tendere all’ambrato intenso e il profilo aromatico a virare verso quelle note balsamiche, quella caramella d’orzo, quella nota eterea che ritornano come leitmotiv sensoriale nelle annate successive (ma precedenti in ordine cronologico).

Il 2010, dal colore ambrato intenso con vivide accensioni aranciate, è tripudio di erbe aromatiche (rosmarino, timo) e possiede un palato denso, balsamico da morire, con canditi, miele, lieve carruba, sussurro di prugna. Gran respiro mentolato e allungo di albicocca secca.

E se il 2008 conquista per l’esplosione delle erbe aromatiche, il soffio alcolico, nobile come quello di Cognac, il registro candito e il divenire brillantemente balsamico, il 2008 Edizione Limitata – 6456 bottiglie uscite a sei anni dalla vendemmia, prima annata che segna un aumento dell’uva passa durante la fermentazione del mosto di zibibbo secco per uno sviluppo di circa 200 grammi/litro di zucchero residuo – risulta essere un vino quasi definitivo: brillante colore ambrato marrone/mogano rossiccio, che è la cifra cromatica di questo vino con l’evoluzione. Profumi di netta marca balsamica, officinale, medicinale: un coro di erbe aromatiche che si unisce al trionfo dei fichi, dei datteri, dell’ebanisteria, con una persistenza clamorosa di scorza d’agrume, albicocca secca, carruba, menta, eucalipto.

Il 2006 è un’ambra rossastra al colore che spinge sui sentori del rosmarino, della canfora, della caramella d’orzo, dell’elicriso. In bocca furoreggiano le note officinali, trionfa il rosmarino, fa capolino la prugna. Tutto è grasso, e alcolico, e irresistibile.

Il 2005, infine, traduce tutta la nobiltà del terziario: liquirizia, carrube, datteri, miele di castagno. Palato denso, alcolico il giusto, dove ritornano il miele di castagno, le accensioni balsamiche, la torrefazione, l’allungo di datteri, fico e liquirizia.

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Poco lontano da qui, la casa di Salvatore Ferrandes si trova al civico 8 di via del Fante. in Contrada Tracino-Khamma (o Kamma, come talvolta viene trascritto). Non potrebbe esserci uno stacco più sensibile tra i due profili produttivi: da una parte la grande azienda con un parco vitato di ampia estensione e un numero di bottiglie all’anno di Passito (circa 80.000) che garantiscono visibilità e capillarità sul mercato non solo nazionale, dall’altra un piccolo produttore che ricava 2000 bottiglie da due ettari di vigneto.

I Ferrandes hanno origini spagnole, la moglie è di origine svizzera, ma Salvatore è pantesco nell’anima e nella mente. Vignaiolo solitario e pacato, silenzioso e laborioso, proviene da una famiglia di contadini: il padre conferiva il mosto muto alle aziende del nord e faceva per sé un po’ di passito; lui comincia producendo uva passa, che vende direttamente senza affidarsi ai sensali, poi i capperi (mi porta a vederne un campo a picco sul mare) e infine il passito, imbottigliando dal 2000 l’etichetta che oggi è diventato oggetto di culto per la sua rarità e bontà.

Salvatore è tradizionale, istintivo, certosino: l’appassimento avviene su graticci in legno, la passulata viene aggiunta a orecchio, quando sente il suono giusto, il passito o è perfetto o non esce, come è successo al 2016, al 2015, al 2011, al 2010. Le sue vigne, condotte secondo agricoltura biologica certificata, sono sparse un po’ qui un po’ là, ma il grosso dell’estensione si trova a Mueggen, una delle contrade più ampie e poetiche dell’isola, dove si trova anche la cantina.

Il Passito di Pantelleria 2012 ha colore ambrato intenso con sfumature arancio-rossicce e un portato olfattivo di ampia risonanza: erbe officinali, macchia mediterranea, fiori, erbe, mirto, genziana, menta. Palato denso, ricco, molto balsamico, molto fresco, con albicocche sciroppate e mirto che si confondono. Finale lungo, arioso, cosparso di note di rosmarino.

Il 2008 ne è l’espansione: stesso colore, stessa intensità, stesso carattere, stessa grazia. Non stupisce che questo millesimo sia stato anche qui oggetto di una versione 2008 Decennale: uno squisito assieme di densità e contrasto, di pesche sciroppate e arancia candita, di aria di mare e vibrazioni salmastre.

Continua….

Per la prima parte LEGGI QUI

Questo breve reportage di impressioni, visioni e assaggi è frutto di due viaggi primaverili nell’isola di Pantelleria avvenuti nel maggio del 2018 e del 2019. E di due principali letture:

Giosuè Calaciura, Pantelleria. L’ultima isola, Bari, Laterza 2016.

Peppe d’Aietti e Grazia Cucci, Pantelleria. Il continente tascabile, Mazara del Vallo, Il Pettirosso Editore 2017.

Contributi fotografici dell’autore e di Britta Nord

Massimo Zanichelli

Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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Milanese di nascita, apolide per formazione, voleva diventare uno storico dell’arte (si è laureato con una tesi sull’anticlassicismo pittorico rinascimentale), ma il virus del vino contratto più di una ventina d’anni fa tra Piemonte e Toscana lo ha convertito ad un’altra causa, quella del wine writer, del degustatore professionista e del documentarista del vino. Ha firmato la guida I Vini d’Italia dell’Espresso fin dalla sua nascita (2002-2016) e la rubrica sul vino del settimanale l’Espresso per molti anni. Ha curato le pubblicazioni di Go Wine, ha scritto per le riviste «Ex Vinis», «Grand Gourmet» e «Mood», redatto il Nuovo repertorio Veronelli dei vini italiani (2005) e I grandi cru del Soave (2008). Di recente ha pubblicato “Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi” (Bietti, 2017) e ” Il grande libro dei vini dolci italiani” (Giunti, 2018). Tra i suoi documentari: Sinfonia tra cielo e terra. Un viaggio tra i vini del Veneto (2013), F for Franciacorta (2015), Generazione Barolo – Oddero Story (2016), Il volto di Milano (2016), Nel nome del Dogliani (2017).

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