Al centro del Whisky. Diario di un viaggio alcolico. Seconda parte

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Arriviamo a Campbeltown in una mattina assolata rivelatrice di ogni dettaglio. L’ingresso in città è difficile da dimenticare, con il porto merci, il golfo allungato a dismisura contornato da colline verdi che accompagnano, in prospettiva, lo sguardo verso il mare aperto: immagini l’Irlanda e poi l’oceano. Il sole rimbalza sull’acqua e schizza sui nostri occhi scintille mentre camminiamo verso il paesello, scrigno ricolmo di whisky.

Il gentile affittuario delle nostre stanze ci ha consigliato di andare a piedi lungo la strada che costeggia l’acqua “così stasera non rischiate l’auto, la patente e così via”; ottimo suggerimento, sgorgato, a occhio e croce, dall’esperienza. A piedi, soli nel sole, ognuno con i suoi pensieri e allegre tensioni, ci avviciniamo al centro che nasconde, per ora, le distillerie agognate. Si svela piuttosto, ai nostri occhi di turisti, una vita ordinata e comune: persone che lavorano, che camminano, che leggono il giornale. Spesso mi sono chiesto se gli esseri umani che vivono in luoghi di culto alcolico, dalla Borgogna a Barolo, da qui a Madeira, si rendano conto della potenza simbolica della loro cittadinanza. Noi immaginiamo una sorta di esistenza scissa dall’ordinario, consacrata alla fermentazione di un liquido che attira fedeli da ogni angolo del mondo e, solo per questo, sfuggente alla normalità.

Cammino leggero ovattato nel calore inaspettato, mi perdo in queste fantasticherie mentre osservo, per la prima volta in vita mia, le case, la strada e le facce delle persone che incontro. Sono solo fantasie; anche chi vive qui, probabilmente, è assuefatto all’ordinario della vita quotidiana: il lavoro, la casa, le passioni e la fame. A proposito, dobbiamo mangiare! C’è un tavolino di metallo all’esterno di un bar, proprio di fronte al porto. Entriamo per ordinare qualcosa. Ci mettiamo a sedere all’interno, il tavolo fuori è stato  occupato nel frattempo. Ode alla colazione scozzese che riempie gli occhi e lo stomaco e, come dicono i dottori, provvede all’energia necessaria per vivere la giornata che, nel nostro caso almeno, sarà parecchio alcolica.

Il grande poeta scozzese Robert Burns celebrò in una poesia l’haggis, interiora di pecora insaccate che mangeremo da lì a qualche ora; per me doveva celebrare l’intera quantità di grasso e proteine che vengono concentrate in un solo piatto. Accanto a mezzo litro di caffè lungo ecco che arriva un panino aperto a metà con dentro una fetta intera di pancetta sovrastata da un uovo in camicia. Chiudo il panino e addento. Il pane è semidolce, l’uovo scoppia e la pancetta scrocchia; lo stomaco vuoto, prima che il palato, esulta per questa voluttuosa pienezza. Manca del piccante per rendere l’esperienza poliedrica, ma non fa niente. Terminato il pasto più importante della giornata, andiamo per le strade della città a cercare il festival.

Sono le 10,30 e incrociamo diversi turisti come noi con sacchetti pieni di bottiglie di whisky. La distilleria è appena fuori il piccolo centro. Non c’è odore di malto, o almeno io non lo sento, Ma arriva un brusio sempre più forte che diventa un richiamo magnetico, verso il quale dirigiamo i nostri passi. Eccoci in un vicolo stretto, i rumori, le voci e la musica ci risucchiano verso un parcheggio adibito a fiera; siamo alle porte di Springbank, ed è bellissimo. La distilleria è aperta e nel parcheggio sono stati allestiti, sotto piccole tensostrutture, banchetti che vendono cibo, gadgets e altro. Tutto è molto semplice, gioviale e tranquillo; una festa di paese ma un paese dedicato al whisky.

La fila più lunga di persone termina a un tavolo all’ingresso di un magazzino di stoccaggio. Questa è la coda per assaggiare un numero imprecisato di botti proveniente dalle distillerie facenti capo a Springbank. La lavagna è piena zeppa di whisky prelevati direttamente dall’affinamento. Una marea di nomi che riportano ad innumerevoli percorsi di affinamento, impossibili da trovare altrove. Risolvo subito l’imbarazzo della scelta: segnato con tratti di gesso rosso al numero 13 bianco sulla lavagna appare Springbank Local Barley 57,7%. Local Barley, un sogno che si avvera da quando anni fa vidi quella bottiglia in vetrina nell’enoteca Berry Bros and Rudd dietro Buckingham Palace, a Londra. Insieme a lui scegliamo Longrow Sherry Finish 2001 cask 513 e, ancora, Springbank Local Barley 9 y.o. Ecco le note di assaggio:

Springbank Local Barley 57,7% – Impressionante la nota di ciliegia matura in questo spirito il cui tratto gustativo è essenziale, misurato e distilla attraverso la spiccata sapidità un’impressione di rassicurante purezza. Il calore alcolico è evidente ma non incide sull’eleganza.

Longrow Sherry Finish 2001 cask 513 – Altra azienda di proprietà della famiglia Mitchell, la stessa di Springbank, sempre a Campbeltown. Come il fratello della sera prima, rivela appena è nelle vicinanze del palato la sua natura torbata con note di fumo di sigaro, mobile antico e cenno oceanico. Non è dichiarato l’alcol di questo malto ma risulta integrato e innocuo nell’eredità (almeno all’apparenza) che, invece di bruciare, coccola con note tiepide di cuoio.

Springbank Local Barley 9 y.o – Porta il lignaggio della sua nobile famiglia inciso, per ossimoro, nel liquido che rivela finezza e sapori di una sapidità vegetale che ricordano l’effluvio di alghe spiaggiate sulla riva di un grande mare. A tornarci con il naso emerge una nota scura di nocciola e note iodate che virano verso il medicinale. Mi pare un grande bicchiere che spero di ritrovare sigillato in qualche bottiglia.

Il primo giro ci lascia stupiti. L’esperienza è talmente nuova e coinvolgente che poco cogliamo dei dettagli di questi bicchieri, ma, come della natura vegetale che circonda questi luoghi, si rimane impressi dalla complessità del tatto più che dal dettaglio del sorso. Inizia la musica nel piazzale mentre ci mettiamo di nuovo in fila per altri “prelievi” da singola botte, che arrivano presto nei nostri bicchieri.

Hazelburn 1998 Bourbon cask 55% – Il palato è tarato sulla sapidità incisiva dei precedenti e sulla spinta balsamica del Kilkhomann bevuto la sera precedente. Per questo l’attacco gustativo dolce crea perplessità e una certa fatica nell’immediato approccio. Per fortuna il finale così secco e aromatico di nocciola è molto fine e rende la bevuta armonica.

Springbank 2011 Small cask – L’attacco al naso è sulfureo e deciso. Per qualche secondo il vigore ne offusca il ventaglio aromatico. Mi ricorda un Longrow 21 anni assaggiato a Milano un anno fa. Il velo si dissipa con l’ossigeno e rivela, manco a dirlo, uno scenario marino con profumo di conchiglia, riccio e sabbia. Un odore colorato di giallo salato e luminoso. Il gusto è fine, ancora sapido e marino, sapido e marino ancora.

Springbank 21 y.o. – Il talento è racchiudere tale complessità gustativa in così poca estrazione di materia. Un liquido essenziale che regala molteplici stimoli gustativi e tanto piacere alcolico, fissati in un sapore che, a guisa di echi sempre più chiari, si imprime nei ricordi mentre si allontana dentro lo stomaco. Iodato e fruttato, balsamico e terroso, possiede un finale infinito. E poi il ricordo del mare freddo, naturalmente.

L’alcol comincia a staccare il pomeriggio da terra come una mongolfiera. Siamo ancora saldi a terra, per ora e per fortuna, specialmente dopo un giro di fish and chips, molto più buono della sera precedente; lo stoccafisso è tenero, profumato, saporito e l’impanatura non stantìa. Ottimo e puntuale, questo boccone ci prepara allo Springbank Warehouse Tasting, prenotato via web dall’Italia. Per dirla tutta credevo  dsi trattasse di una degustazione ufficiale, guidata da esperti, utile ad imparare qualcosa e a stabilire contatti. Mi sbagliavo e di grosso, la faccenda è molto più divertente.

Siamo in fila per entrare in uno dei magazzini della distilleria. L’ambiente è tiepido, denso di odori; pare la stiva di chissà che tipo di nave. Incenso, vaniglia, caffè, orzo, malto, conchiglie, menta e tanti profumi sconosciuti si intrecciano e colpiscono i sensi nella semioscurità. Scintilla nell’ombra il metallo di una pipetta da botte. Il direttore di Springbank, credo, ci conduce verso una prima botticella, tra le circa 500 che trasformano un magazzino in un luogo sacro. Oltre alla pipetta da prelievo, tiene in mano uno splendido attrezzo costituito, nella parte superiore, da un vero e proprio martello la cui impugnatura è a spirale. Siamo in tanti ma il silenzio cala non appena, con gesto da maestro, il tipo infilza il verme ferrato dentro una piccola botte scura. La separazione tra il cocchiume e l’antica custode del liquido genera un rumore-suono, salutato da tutti con un applauso spontaneo.

Springbank 8 y.o. finito in una botte di sherry (in inglese è finished e non mi viene in mente un termine alternativo). Sontuosa la materia viscosa, poco eterea e molto molto concreta. Rifletto su questo aspetto del mondo del whisky, in qualche modo mistico, legato all’essenza del liquido che viene chiamato spirito, cioè forma immateriale generata da materia. L’origine legata ad elementi assoluti quali terra (torba), acqua e fuoco si concentra in un liquido essenziale che nel tempo libera il proprio spirito elevando la purezza rarefatta a prova alchemica di coincidenza impossibile tra sostanze diverse e immanenti alla natura umana.

La capacità di distillare la massima purezza possibile da ingredienti che la natura ha collocato sopra di noi individua per me, neofita dello spirito, la qualità del liquido. Mentre osservo, assorto in questi pensieri, il bicchiere vuoto e il rumore-suono di una seconda apertura mi riporta al presente. Longrow 15 y.o. finished rum cask si impone per la sua decisa espressività. Le note di zolfo si dissipano con il tempo lasciando il campo olfattivo a sensazioni torbate e balsamiche finemente integrate. La bocca è ricca di grazia e scioltezza ed è una dote inaspettata per un quindici anni. La botte di rum, intuisco, influenza in chiave di viscosità e dolcezza il “peso” della materia. È l’ultima intuizione della giornata, caro lettore.

Diversi altri assaggi il maestro della cantina ha spillato dalle botti scure adagiate in ordine sul pavimento del magazzino. Ma la coscienza è ormai poco vigile e l’alcol obnubila la mente descrittiva. Così ho bevuto gli ultimi whisky con voluttà abbandonandomi alla leggerezza alcolica, senza il pensiero della descrizione. Usciamo alla luce e ci mettiamo a sedere su uno scalino. La giornata è passata in un batter d’occhio. Sono accanto al mio amico mentre aspettiamo il compagno che è andato in giro a visitare la distilleria per conoscere il processo produttivo grazie a una visita guidata. «Che esperienza – faccio al compare – Springbank in botti di Sherry è un nettare; eh Arturo? Arturo?». È sparito dal mio campo visivo; giace accanto con gli occhi chiusi, felice e dimentico, tra bottiglie di bevande e rum destinati al bar approntato ai lati del piazzale.

Amico mio, quante volte ci siamo addormentati sfiniti alla fine di notti zingare che credevamo infinite, in spiagge e tra i boschi, in cima ai cari monti di casa o in misere stanze di universitari finiti chissà dove. In questo angolo di Scozia sembra di assaporare di nuovo quella giovinezza che ci ha improvvisamente abbandonato, lasciandoci alle infinite responsabilità che colmano di esperienze reali e significati concreti il divenire adulti e poi invecchiare.

Arriva l’altro compagno, ride di gusto alla vista della “salma” dell’amico. Si sveglia abbastanza fresco, tutto sommato, e si tira su «Ho fame»- esclama. La notte tarda ad arrivare, ormai abbiamo imparato, ma siamo spossati da whisky ed emozioni. Mangiamo qualcosa che non ricordo in un luogo anonimo. Camminiamo dolcemente verso casa osservando l’incredibile contrasto cromatico tra le mastodontiche gru rosse e il blu irripetibile di questo cielo: un ultimo dettaglio da fissare nella memoria sperando vi sia ancora spazio. Mi addormento pensando ai miei figli che vorrei portare qua con me un giorno e alla colazione di domani. Goodnight my friends.

Per la prima parte del diario LEGGI QUI

continua….

Fabio Pracchia

Vive sulle colline lucchesi. È uno dei principali collaboratori di Slow Wine, la guida annuale del vino pubblicata da Slow Food Editore. Si occupa da circa quindici anni di vino e cultura cercando di intrecciare il lavoro alcolico con quello narrativo.

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