L’attesa delle nuove annate di Montevertine riveste un’importanza che va oltre la singola prestazione enologica. La realtà della famiglia Manetti a Radda in Chianti è un’icona produttiva la cui storia aziendale, la cui continuità qualitativa e la cui coerenza stilistica rappresentano una sorta di riferimento generale in grado di definire le coordinate essenziali di una vendemmia per un vitigno, il sangiovese, e per un territorio, il Chianti Classico.
Martino Manetti è in piedi mentre il volume crescente delle chiacchiere suggerisce la convivialità di questo incontro. Ci zittiamo subito quando il padrone di casa entra nel merito dei vini che assaggeremo nel corso della serata. «Si impara sempre da ogni vendemmia – ci dice – e, d’altra parte, uno dei valori in cui crediamo con forza è quello di riflettere fedelmente l’andamento di un’annata, nel bene e nel male. I nostri vini hanno evoluzioni difficilmente pronosticabili nel lungo periodo ed è sempre divertente a distanza di anni rimanere sorpresi da una vecchia bottiglia che pare abbia vissuto una propria vita indipendente dalle nostre cure e aspettative».
Nella sua trasparente leggerezza il Pian del Ciampolo 2018, da uve sangiovese, canaiolo e colorino, rivela una vendemmia che ha donato al vino densità e dettagli. In questa fase embrionale del percorso evolutivo si gusta la verve dinamica che regala succosità dalla quale si sprigionano aromi agrumati di mandarino. La levità del sorso libera bene il palato da qualche contrattura giovanile già smorzata del resto dall’ottimo piatto in abbinamento: ceci in zimino, ben fatti, conditi con olio extravergine di Montevertine.
È vino complicato, in effetti, in cui la parte vegetale e tannica ingombra e frena la materia liquida. Per fortuna, a una settimana di distanza, chi ha assaggiato ancora questo vino a Terre di Toscana a Lido di Camaiore, ottenuto stavolta dal taglio crediamo definitivo, è rimasto molto ben impressionato. Ciò però non conta, vale di più parlare di un’annata difficile in cui la gelata primaverile prima e la siccità poi hanno messo a dura prova l’equilibrio delle vigne «Non è stato facile scegliere il periodo giusto della vendemmia e selezionare i grappoli degni di questo vino» confessa Paolo Salvi.
Il risotto “riserva san Massimo” al piccione mantecato al formaggio Monte 27 esalta ancora di più la tessitura del vino. Al tavolo ci scambiamo opinioni sul fatto che, forse, è l’uso della barrique a donare quella dimensione aggiuntiva al vino in grado di rintuzzare i tratti indomiti, pur nella precarietà del campione in assaggio. Martino dissipa ogni dubbio: «In annate del genere che definire estreme è un eufemismo – ci dice – le vigne vecchie sanno sempre come comportarsi ». La saggezza delle piante antiche: la suggestione di questo pensiero porta a bere un altro bicchiere e a pesare quella goccia di Pergole come un dono raro e prezioso. Così è.
Ma non è finita. Viene servita una sorra di chianina brasata con purè di patate e al contempo entrano 9 litri di vini suddivisi equamente in tre bottiglioni da 3 litri ciascuno coperti. “Selezione a sorpresa dell’azienda Montevertine” recita il menù. Che bella sorpresa, pensiamo tutti noi.
Fausto Ferroni, degustatore di Slow Food, della solita annata ne ebbe a scrivere nel 2013 in occasione di una verticale completa “Ennesima conferma dell’attuale stato di grazia di molti grandi vini toscani, base sangiovese, in questa annata non catalogata tra le più accreditate. Il naso è il naso della verticale: sfumato e cangiante, floreale e dal fruttato integro, nettamente salmastro e iodato, ben definito e con splendida e fine terziarizzazione. La bocca non ha grande peso, si muove con eleganza e passo felpato, con tannino ben risolto e saporito. Manca il guizzo finale e la profondità di altre annate, e, alla distanza, non nasconde la sua intrinseca fragilità. Ma non si può chiedergli di più…” Siamo certi, per esperienza, che tale intrinseca fragilità sia una filigrana sottile di finezza destinata a durare, e che questa sia una bottiglia maledetta (3 litri ahinoi). Ma solo altri incontri potranno confermarlo.
Mi riprendo da questo sorso convinto della sua assolutezza. Pare strano come nella felicità di un fine cena splendido (felicità che in questo periodo così difficile per tutti appare un remoto appiglio per speranze future) ci si possa ritagliare un momento di riflessione e crescita di consapevolezza: potere del vino e magia della sua suggestione.
Il Gin di Montevertine è servito con splendidi mezzi paccheri “Afeltra” cacio e pepe cotti alla perfezione. Si tratta di un Gin Tonic per me abbastanza violento che non saprei ben definire ma del quale avverto il piacere della temperatura bassa, l’afflato balsamico delle erbe, l’amicizia del colpo alcolico. Non essendo però un cultore della materia mi fermo a queste impressioni grezze che mi spediscono direttamente nell’ebbrezza, alla quale serviranno due caffè e una bella camminata nel freddo cittadino per dileguarsi e lasciare soltanto tracce memorabili di una serata splendida.
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Beh…poteva anche portare una seconda bottiglia del Sodaccio visto che ne ha……devi anche mettere in preventivo qualche bottiglia storta…..boh…