Da Milano ai Colli Piacentini in bici. Prima parte: Milano-Valtrebbia (Il Poggio)

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San SiroOre 6:35 del mattino. Cielo limpido, il sole è sorto da un’ora in queste giornate lunghe di metà giugno. Sono da solo con la mia bici davanti all’enorme spianata dello stadio di San Siro. Sta per iniziare il mio viaggio. Mi scatto una foto, controllo i lacci delle borse laterali, salgo, faccio scattare i pedali. Si parte.
Da tempo avevo in mente questa cosa: un viaggio in bicicletta dalla metropoli lombarda verso le colline piacentine. L’ho voluto fare a tutti i costi, in solitudine, anche se il meteo annuncia giornate torride. I primi chilometri sono tutti in città, verso quella che chiamo l’autostrada dei ciclisti, il Naviglio Pavese. All’altezza di Conca Fallata salgo finalmente sull’alzaia: da qui a Pavia sarà tutta ciclabile ai lati del Naviglio. Dopo poco mi si affianca un ciclista, ci mettiamo a chiacchierare di bici e di montagne e facciamo senza accorgercene una quindicina di chilometri. Poi lui piega per tornare a Milano, io avanti.

L’asfalto è buono, adesso vado spedito, 100 pedalate e 135 battiti al minuto per 23-25 orari, quanto mi piace il vento in faccia. Avanti, e da lontano nella pianura verso est scorgo i pinnacoli di quella costruzione incredibile che è la Certosa di Pavia. All’altezza del bivio, non resisto e decido di deviare qualche chilometro per raggiungerla. Quando arrivo non sono ancora le otto e mezzo, il cancello è chiuso, c’è un silenzio surreale e laggiù in fondo si vede un ritaglio di quella facciata sensazionale, capolavoro di un rinascimento sincretico e spettacolare. Bevo un lungo sorso d’acqua, e ritorno sul Naviglio.
Il livello dell’acqua è basso, i segni delle annate precedenti fanno capire che siamo sotto di 40-50 centimetri, i campi intorno non lasciano molto spazio al dubbio: grano rado e stentato, risaie quasi tutte in asciutta, mais alto appena 20 centimetri su campi riarsi. Mette un nodo in gola questa situazione, cerco di pensare alla strada: devo andare spedito per cercare di stare meno tempo possibile sotto al sole.

 

Arrivo a Pavia, mi piacerebbe entrare in centro, passare con la bici davanti a San Michele e la sua facciata che è un libro scolpito nella pietra dell’anno Mille, o passare sul ponte coperto sul Ticino, ma ho una tabella di marcia assai stretta, perderei troppo tempo: lascio il naviglio e dopo un po’ di traffico imbocco strade più laterali; da San Pietro in Verzolo percorro un tratto di Via Francigena, in direzione est; a sud di Belgioioso ecco un dirittone sterrato che sembra infinito, in mezzo a campi di mais; dispersa in mezzo alla campagna c’è solo un’edicola dedicata alla Madonna, in un silenzio e in una luce abbagliante, surreale. Alla mia destra intuisco l’avvicinarsi del grande fiume, poi piego verso di lui, sempre in sterrato, e infine eccolo. Il Po è uno spettacolo impressionante. Ha un alveo larghissimo, ma con ampie chiazze di ghiaia, e acqua che scorre lenta mentre le cicale delle pioppete ripetono la loro litania. La bici e le scarpe sono tutte bianche, la polvere è finissima, la sete incalza ogni pochi chilometri, mi accorgo che le borracce si svuotano a un ritmo preoccupante. A Spessa fiancheggio un vecchio mulino abbandonato, nel silenzio della canicola. Poi piego a sud e salgo sul lungo Ponte di Spessa, tremendo da percorrere in bici, con i camion che ti sfiorano e l’asfalto pessimo.
Ciao Po, entro in Emilia.

Un po’ di chilometri su stradine di campagna, con tratti sterrati e sono a Castel San Giovanni, borgo agricolo non dei più belli. Trovo una fontana e il sorriso di una signora che che mi fa passare avanti a riempire le borracce. Grazie. Avanti.
Ecco la bella ciclabile della Valtidone, poi il castello di Borgonovo Valtidone, che si staglia severo nel cielo azzurrissimo. Faccio una foto veloce, il sole scotta e non ti fa fermare, fortuna che mi sono coperto braccia e gambe di crema solare, altrimenti oggi sarebbe stata da ustione. Ho un po’ di fame ma mi dico di andare avanti; altri chilometri in solitaria in mezzo ai campi, un’altra edicola votiva persa nel nulla e poi arrivo al guado del Tidone. Ma magari ci fosse da guadare: il letto è tutto asciutto, si attraversa il primo dei quattro fiumi piacentini in una calura stordente, i salici sono immobili, in silenzio. Avanti, riprendo uno sterrato di campagna, talmente in solitudine in mezzo ai campi che a un’incrocio rischio di farmi mettere sotto dall’unica auto nel raggio di chilometri. Iniziano le colline, quelle belle. Sulla mia sinistra, in salita, un campo di grano copre un’intero anfiteatro, morbidissimo, con spighe dalle sfumature rossicce, meraviglioso. Mi fermo, mangio una barretta e bevo. Poi Sarturano, la torre di Montebolzone, poi finalmente arrivo ad Agazzano, con il suo bellissimo complesso della rocca e del castello, Medioevo e Settecento messi accanto in un insieme armonico e ritmato. Al ristorante Il Cervo ho modo di rifocillarmi con i tortelli piacentini dalla tipica chiusura a treccia; il ripieno è il classico spinaci ricotta e grana; ben fatti.

All’uscita da Agazzano ho modo di sbagliare strada, mettendomi a risalire una bellissima strada di ghiaia che costeggia il torrente Luretta. Un errore interessante, questa valle è davvero bella. Mi sorprende all’improvviso lo squillante colore di un albero di amarene rosse come il fuoco. Torno sulla traccia (non mi ero accorto che il Garmin da un chilometro mi diceva che ero fuori percorso…) e guado il Luretta, manco a dirlo secco.

Mi sto avvicinando alla meta di giornata, il Poggio, avverto per telefono Andrea Cervini ma proprio mentre pedalo e parlo al telefono la strada si impenna in modo preoccupante; sono su un bellissimo tratturo, con boschi a monte e campi coltivati a valle, siepi e colline a perdita d’occhio. Mi fermerei un po’ davanti a questo panorama, ma sto grondando di sudore e sono davvero in riserva. Per fortuna tra i tanti saliscendi c’è un tratto ombreggiato a margine di un campo di foraggio, con la traccia del sentiero appena accennata. Bellissimo. Giusto in tempo per rendermi conto che inizia un’altra rampa sassosa che mi porta a lambire Monteraschio; poi scollino e scendo su un dolce sterrato costeggiando sotto di me il Bosco di Croara. Quindi, finalmente, eccomi arrivato al Poggio, a Statto.

 

Elisa e Carolina, le figlie di Andrea, si prendono cura di me; la bici invece va a riposare nella cantina sotto all’agriturismo. Il Poggio è un progetto in divenire; Andrea Cervini ha iniziato con il vino poi ha ampliato con l’agriturismo, la piscina e la veranda con la spettacolare vista sulla Valtrebbia, e poi con le camere del B&B.
Dopo una doccia e una caraffa d’acqua ho modo di fare due chiacchiere con Andrea.

Andrea, raccontami un po’ della tua azienda.
-Ho quattro ettari vitati a uve rosse (barbera e bonarda) e mezzo ettaro a malvasia. Faccio 35-38.000 bottiglie l’anno. Ma la situazione è in evoluzione di anno in anno perché quando trovo dei vecchi appezzamenti qua nel circondario cerco di non lasciarli a se stessi e li prendo in affitto. E in questi vecchi vigneti trovi di tutto, anche un po’ di sauvignon e marsanne, che qui sono coltivati dai tempi di Napoleone. Siamo in una zona di confine tra Emilia, Lombardia e Piemonte e anche Liguria. Mi piace dire che facciamo i vini fermi ‘alla piemontese’ e i vini frizzanti ‘all’emiliana’. O se vuoi, vini caldi per terreni freddi e gastronomia “da vacca”, alla piemontese e vini freschi per terreni più caldi, all’emiliana, dove la gastronomia è basata sul maiale.

Come veniva fruito tradizionalmente il vino in queste zone?
-Il vino era un alimento. E deve essere un alimento. Qua il vino bianco era il vino da colazione agricola. Pane, latte, pancetta e vino bianco. Fatto con la malvasia, che ha molti tannini, e l’ortrugo, “l’altrugh”, ovvero l’altra uva, che serviva a tagliare e addomesticare la malvasia.
La barbera era invece il vino per la carne. L’uvaggio tra barbera e bonarda, che produce molto meno della barbera, era il vino della domenica. Verdea e malvasia passite erano per il vino speciale, dolce”.

Che tipo di suoli hai qua nelle vigne del Poggio?
-Si tratta di un misto tra argilla e calcare. In queste zone la fermentazione tende ad arrestarsi in autunno lasciando residuo zuccherino, e riparte nella primavera successiva. Col tempo ho imparato ad aspettare qualche anno prima di imbottigliare, in modo che il vino si stabilizzi e non ripartano fermentazioni inaspettate. I miei vini sono fermi, ma ci sono annate, come ad esempio la 2012, dove trovi un po’ di carbonica.
Oggi c’è un sacco di attenzione per i bianchi macerati; io devo dire che i vini li ho fatti sempre così: non filtro e non aggiungo solforosa. Si tratta di vini di territorio. Non sto a biasimare gli altri; il bianco qua era così e io lo faccio così perché… sono così, tutto qua!

Intanto ci allontaniamo un po’ dalla cantina e arriviamo alla vigna del rosso di punta, il Navèl, con viti di barbera e bonarda, sui 200 metri digradante a est verso il Castello di Statto e verso la Trebbia, che scorre nel fondovalle. Qua la storia narra che si fosse accampato l’esercito cartaginese di Annibale in preparazione della Battaglia della Trebbia (218 a.C.), ed è per questo che nei vini di Andrea compare il simbolo dell’elefante di Annibale. Una curiosa corrispondenza: l’accampamento romano era invece dall’altra parte del fiume, tra Ancarano e Rivergaro: ecco perché Elena Pantaleoni della Stoppa ha chiamato un suo vino “Campo Romano”.

Andrea, quanto è valorizzato il lavoro agricolo in questa zona?
-Bisogna considerare il valore delle cose: qua è stato abbattuto il territorio svendendolo nell’ottica dei grandi numeri. Ma guarda quanta biodiversità c’è in queste vallate: boschi, grano, vigne… siamo in una regione molto “naturale”, forse l’Emilia-Romagna è la regione più strutturata in questo senso, dobbiamo valorizzare al massimo la biodiversità.”

Che ne dici di questo clima, che sfide ti presenta?
-Non bastano nemmeno dieci vite per sapere tutto di come vive l’uva… Quest’anno, dato il clima secco, su una vecchia vigna provo a non trattare. Le viti vecchie sono più tardive, e si ammalano di meno nelle fasi critiche del germogliamento.

Il sole tramonta lentamente, piano piano la terrazza dell’agriturismo si popola di commensali; Carolina porta avanti la cucina, il servizio ai tavoli è ben curato, mentre Andrea funge da jolly curando che nessun tavolo resti senza vino. Scompare in cantina e riappare portando ogni volta una nuova bottiglia. Sugli antipasti di salumi piacentini, chisolini, polpettine di carne e giardiniera inizia ad aprire la batteria dei vini che assaggeremo stasera.

I VINI DEL POGGIO

Vino del Poggio Bianco 2020 (etichetta blu)
Ortrugo. Di colore aranciato non eccessivo, ha un naso affilato e roccioso/marino; solletica il palato con una bolla leggera, è molto sapido e presenta ancora un tocco di zuccheri residui; ha una sensazione palatale piacevolmente tannica.

Vino del Poggio Rosato 2020 (etichetta rosa) 13%
Viene vinificato con una selezione pre-vendemmiale delle uve barbera, in modo dal lasciare sul tralcio i migliori grappoli per i rossi. Di un colore rosa buccia di cipolla, al naso ha un impatto assai puntuto di esteri, smalto, frutto rosso. In bocca si percepisce una lieve bolla (Andrea precisa che dipende dalle varie bottiglie, alcune hanno un po’ più carbonica, altre meno). È un vino goloso grazie al bilanciamento tra acidità e residuo zuccherino, il finale sorprende per una nota chiara di melograno e susina acerba.

Vino del Poggio Bianco 2020 (etichetta verde) 12,5%
Da uve sauvignon macerate 40 giorni con le bucce; colore aranciato più intenso rispetto all’ortrugo, il naso si apre su note minerali, in bocca è splendidamente ampio, morbido e graffiante allo stesso tempo, dalla sapidità estrema. Splendido.

Vino del Poggio Bianco 2020 (etichetta arancio)
Da uve malvasia macerate 6 mesi con le bucce. Al naso si riconosce subito la pesca bianca molto netta seguita da albicocca fresca. In bocca è fruttatissimo, con una presenza tannica ben misurata e una sapidità splendida. Un vino ancora all’inizio del suo percorso, meriterebbe di essere riassaggiato tra cinque anni. Davvero un grande vino.

Vino del Poggio Rosso 2017 (etichetta rossa)
Barbera, macerato per 2 mesi con le bucce. Naso dove si ritrovano le note varietali della barbera, ma con un piglio affilato. Il tannino è fine e chiude morbido, con un leggero residuo zuccherino.

Vino del Poggio Rosso Navèl 2012 (etichetta rossa) 13,5%
Taglio di barbera e bonarda. Ecco quello che intendeva Andrea per vini “alla piemontese”: corpo e raffinatezza, nudità di carne, lunghezza e tannino, ancora vivissimo nonostante i dieci anni.

 

I VINI DEI VIGNAIOLI DEL TERRITORIO

Una delle cose che ricorderò di questo viaggio è lo spirito di collaborazione tra i vignaioli. Un gruppo di vignaioli piacentini che ha compreso che la collaborazione aiuta a promuovere il territorio tutto, e che presentare i vini dei colleghi è un modo per fare sistema e per crescere tutti insieme.

Jai Guru Deva vino bianco 2020 – Shun Minowa
Shun Minowa è un piccolo caso tra i vignaioli piacentini. Giapponese, laureato in agricoltura con un master in biologia, nel 2015 conosce Elena Pantaleoni e il suo Ageno: da lì a un anno sarebbe entrato a lavorare alla Stoppa, dove apprende le tecniche di vinificazione dall’enologo Giulio Armani. Poi inizia la sua avventura vinicola a Travo, in località Pastori, dove rileva una vecchia vigna e inizia a sperimentare le lunghe macerazioni sui bianchi. Le sue etichette disegnate da un maestro giapponese sono un punto d’incontro tra oriente e occidente.
Jai Guru Deva è il nuovo vino di Shun, prodotto con uve provenienti da differenti vigneti rispetto al primo vino, Gate, ma sempre in Valtrebbia, e sempre ad altitudini prossime ai 500 metri. Jai Guru Deva è un mantra in sanscrito, ripetuto anche dai Beatles nella canzone Across the Universe, e significa “Salve maestro divino”. Da uve ortrugo, malvasia e altre varietà a bacca bianca. Ha colore arancio brillante, con l’albicocca fresca che appena aperto appare discreta e leggera. In bocca è potente, alcolico, speziato, caldo. Lasciandolo ossigenare nel bicchiere appaiono più fresche note marine e una bocca complessa, con un bel finale armonico.

 

Riva del Ciliegio 2016 Pinot Nero Emilia IGT – Casè
Casè è l’azienda fondata sulla collina sopra Travo in Valtrebbia oltre i 500 metri di quota da Alberto Anguissola. Alberto aveva iniziato vinificando le uve di queste ripide coste (impiantate nel 1998) nella cantina di La Stoppa, con il supporto di Giulio Armani, per poi procedere in proprio negli anni successivi. Anche in questo caso l’approccio è del minimo interventismo sui vini, e sull’attenzione ecologica in vigna. Interessante il fatto di potere trovare un pinot nero d’altura sui colli Piacentini; non c’è da attendersi un vino in stile Alto Adige; il Riva del Ciliegio è un vino intrigante e complesso, dallo spettro aromatico sempre nello stile naturale, frutta e frutta secca, vivo, di grande personalità. Splendido nell’allungo sapido, dinamico e fruttato. Una bellissima conoscenza.

CasèBianco 2020 – Casè
Blend di malvasia, ortrugo, trebbiano, sauvignon. Colore aranciato chiaro, ha un’espressività notevole, naso speziato con richiami di erbe verdi, ortica falciata, salvia, toni mentolati e un leggero fumé. In bocca la nota tannica non frena la spinta verticale. Lungo, fruttato e mentolato, davvero molto molto interessante.

Nel frattempo assaggio i tortelli piacentini di Caterina; ha imparato da una signora del posto a fare la chiusura a treccia, molto complessa, e li fa con una sfoglia di farina locale macinata a pietra: la sfoglia è sottilissima, un velo, e mette in risalto la morbidezza golosa del ripieno, davvero perfetto. Si possono avere conditi con burro e salvia o sugo di funghi, ma la versione burro e salvia è quella che li esalta al massimo nella loro bellezza artigianale. Valgono da soli il viaggio al Poggio. Anche il roastbeef ha una cottura perfetta, e la torta sbrisolona di Carolina è buonissima.

Per me è ormai l’ora di andare a dormire. Oggi sono stati 102 chilometri e 540 metri di dislivello, e tantissime emozioni di paesaggio, di persone, di vini. Non mi resta che ringraziare Andrea Cervini e le figlie Carolina e Elisa per l’amicizia e l’ospitalità: salire al Poggio è fare un’esperienza di cibo e di vini di territorio, ma anche di grande umanità.
Domani sarà tosta, dopo aver passato la Trebbia, primo appuntamento alla Stoppa, poi lungo scollinamento di due vallate (Nure e Arda) fino a Castell’Arquato da Max Croci. Ma lo racconterò nel prossimo articolo.

Agriturismo Il Poggio, di Andrea Cervini
Località Poggio Superiore, 29020 Statto, Travo (PC)
Telefono: 334 1544810
https://poggioagriturismo.com
Instagram: @andrea_cervini

Casè Vini di territorio, di Alberto Anguissola
Strada Provinciale 63, Loc. Casal Pozzino 29020 Travo PC
www.naturallywine.com

Shun Minowa
https://www.instagram.com/minowash/?hl=it


La traccia GPS
della prima tappa è visualizzabile con Komoot qui
L’intero viaggio è visualizzabile qui
Anche la bici vuole la sua parte: il viaggio è stato fatto su Wilier Triestina Jena gravel.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paolo Rossi

Paolo Rossi (p.rossi@acquabuona.it), versiliese, laureato in lettere, lavora a Milano nel campo editoriale. Nel vino e nel cibo ricerca il lato emozionale, libertario, creativo. Insegue costantemente la bottiglia perfetta, ben contento che la sua ricerca non sarà mai appagata.

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