Percorrendo le principali arterie stradali di quest’areale è piuttosto facile notare la presenza di vigneti ordinati, noccioleti, boschi e campi coltivati. Ci troviamo esattamente sulla sinistra orografica della valle del fiume Tanaro, la cui origine geologica è collegata a processi erosionali di età Pleistocenica su un ambiente deposizionale di tipo marino, denominato Bacino terziario piemontese. Il suolo di queste colline è simile in parte a quello del Roero, dove sabbia e calcare sono protagonisti indiscussi e spesso plasmano l’identità dei vini: finezza, eleganza, e una rotondità leggermente pronunciata, le caratteristiche principali.
La storia di Marchesi Alfieri vanta origini che si perdono davvero nella notte dei tempi, basti pensare alla data d’inizio, che risale al 1616, epoca in cui Carlo Emanuele I di Savoia concede a Urbano Alfieri il feudo di San Martino. Al timone, oggi, troviamo Emanuela, Antonella e Giovanna San Martino di San Germano, affiancati dalle nuove generazioni di famiglia; gestiscono un patrimonio di 140 ettari di cui solo 20 vitati, e questo testimonia quanto sia importante per l’azienda il concetto di biodiversità, visto che tutto il resto è a noccioleti, prativi, boschi, campi coltivati e parco storico.
Le nuove leve della famiglia San Martino di San Germano, con grinta e determinazione, continuano un viaggio che parla di grandi tradizioni piemontesi attraverso alcuni tra i vitigni più importanti della regione. Tra questi vi è senza ombra di dubbio la barbera, cultivar del popolo e vino onnipresente sulle tavole di tutti i giorni, ma al contempo – se scelta opportunamente in cantina – nettare in grado di non sfigurare davanti a qualsivoglia cavallo di razza autoctono a bacca rossa italiano.
La verticale di Alfiera conferma ampiamente la tesi. Veniamo dunque alla descrizione del vino in questione, prodotto per la prima volta nel 1993 e frutto di vigne situate nel comune di San Martino Alfieri (AT), messe a dimora nel 1937 e reimpiantate nel 1996. Le uve crescono su terreni ricchi di sabbie astiane, oltre a una matrice limosa, ricca di calcio, potassio e magnesio. Ci troviamo a circa 270 metri sul livello del mare, 5 ettari originari – oggigiorno 3.40 – costituiscono il vigneto Alfiera all’interno di un vero e proprio cru chiamato Quaglia, collina che gode di un’esposizione a sud.
Tempi addietro la selezione clonale era orientata su un concetto di quantità, tuttavia negli anni Novanta, al contrario, lo studio vira verso la ricerca dei migliori cloni in grado di donare qualità, con acini più piccoli. Nel 1995 vengono effettuati i primi diradamenti, gli inerbimenti spontanei, la trinciatura solo nel sottofila e le prime lavorazioni meccaniche per eliminare piante infestanti senza alcun utilizzo di diserbanti. L’azienda crede fortemente nei principi che regolano un’agricoltura ragionata, essenziale, dov’è l’ambiente circostante l’unico tesoro da difendere a ogni costo.
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Timbro olfattivo intenso di ciliegia matura e ribes rosso, la parte floreale è molto fine e vira su ricordi di violetta e rosa rossa; fa capolino il chiodo di garofano, unito a suggestioni di pepe verde e pietra polverizzata. Tannino ancora leggermente slegato, è normale considerando la giovane età del vino, corpo piuttosto pronunciato e perfettamente in linea con una sapidità marcante e una freschezza che gli fa eco.
Sin dal principio è la coltre balsamica a regalare una sensazione fresca e vitale, eucalipto in primis, seguito da una traccia lievemente ematica e da un dolce respiro di frutti neri in confettura (mirtillo e ribes); scia di sottobosco sul finale, soprattutto funghi secchi e terriccio umido. Sorso pieno, dove la rotondità non manca, vivacizzata di continuo da lampi di acidità incalzante e da un tannino serico e piuttosto dolce; sorso lungo, potente ma con garbo, e classe da vendere.
L’esordio al naso è incentrato sulla dolcezza dei frutti disidratati: amarena, ribes, mirtillo nero; con lenta ossigenazione aumenta la complessità grazie ad incursioni di caucciù, cuoio, liquirizia e legni nobili/vaniglia derivati più dal frutto che dal contenitore di affinamento. In bocca è “tridimensionale”: inizialmente fresco e slanciato, gode di un equilibrio già piuttosto ragguardevole per via della componente sapida perfettamente allineata alla lunghezza del sorso; a cesellare l’insieme un tannino percettibile con angoli smussati dal tempo. Gran bella evoluzione a circa mezz’ora dalla mescita.
L’annata complessivamente calda si fa sentire, e gli 11 anni dalla vendemmia, in questo caso, non giovano all’insieme. Il frutto appare stanco ed eccessivamente maturo, assorbito da una componente alcolica piuttosto evidente che non consente di decodificare i sentori in maniera corretta, salvo qualche ricordo di liquirizia e una traccia di sottobosco. Palato in netta contrapposizione, dominato da una freschezza di tutto rispetto e da una lunga scia sapida; alcol ben digerito e finale pulito, vivo: che strani scherzi che fa quest’Alfiera!
Musica pressoché identica per Alfiera 2007, figlia di un’annata torrida con temperature medie, nel periodo gennaio-settembre, che si collocano al primo posto tra le più elevate degli ultimi dieci anni precedenti. Questa volta però il naso è più espressivo: frutti in confettura, ravvivati da flebili note balsamiche, e una spezia che in parte richiama i dolci di Natale del Nord Europa, dove la cannella è protagonista; lieve nota ematica in chiusura, e poi rabarbaro. Con un palato leggermente più maturo rispetto all’annata 2011, è un vino che attualmente invoca l’abbinamento con qualche buon piatto della tradizione piemontese, come ad esempio gli agnolotti gobbi astigiani.
Ciò che tiene legato il degustatore seriale alla passione per il vino – soprattutto dopo tanti anni – si può tranquillamente riassumere attraverso poche parole: Barbera d’Asti Superiore Alfiera 2005. Il cosiddetto coup de coeur, e proveniente per di più da un’annata anni luce dal potersi definire eccellente. Insomma, ci ha spiazzato, e all’unanimità. Senza meno “IL” vino della verticale. Naso integro, austero, pulitissimo: inizialmente la parte empireumatica domina la scena, addolcita da legni nobili ma ben fusi, spezie orientali e paprika. Dopo lenta ossigenazione accade il miracolo: affiora un floreale immacolato, nitido – per ovvie ragioni leggermente appassito – tuttavia stupendo, dove la violetta rincorre il geranio selvatico e i frutti rossi canditi (arancia rossa sanguinella in primis) rinfrescano ulteriormente l’insieme. La vera magia è al palato: freschissimo, vitale, un “succo d’arancia rossa” inserito in un corpo di tutto rispetto – per nulla ingombrante – domina l’equilibrio, regalando armonia e soprattutto piacevolezza di beva. Tra le migliori Barbera d’Asti degustate in vita mia, e non faccio alcuna fatica ad ammetterlo.
Anche l’annata 2003 regala una piacevole sorpresa; inutile ricordare quanto la stessa abbia battuto ogni record in termini di afa e siccità. Ritrovo un naso dove il frutto maturo sa di amarena, susina nera, chiodo di garofano e lieve goudron; via via che il vino si apre si trasforma in sottobosco, cera, incenso. La verticalità del sorso è in effetti spiazzante, l’arma segreta del vino: arioso, vitale, con l’armonia d’insieme data da un tannino dolce e da una materia proporzionata alla lunghezza del vino.
Il mondo del vino è tutto e il contrario di tutto. L’esperienza sopradescritta riguardo Alfiera 2005 me la sarei francamente aspettata dall’annata 2001; perlomeno questo è quanto ho imparato negli ultimi 20 anni dai numerosi assaggi effettuati soprattutto in Piemonte, la mia terra. Ritrovo un naso confuso, ho provato anche a cambiare bottiglia ma nulla, è ormai il suo stampo: frutti rossi maturi e un floreale acre coperto interamente da una sensazione alcolica che fatica a svanire. In bocca suona più o meno la stessa musica: freschezza poco incisiva su corpo medio, timbro evanescente e finale corto, ridondante.
Come già anticipato, il colore di questa Alfiera 1998 è spiazzante, la tonalità granata è davvero luminosa e ti predispone di già all’eleganza che andrà a caratterizzarla. Pari merito con la 2005, a mio avviso, stupisce per l’originalità dei toni boschivi e di spezie orientali, in un continuo affacciarsi di sensazioni floreali leggermente appassite – soprattutto viola e rosa rossa – e frutti di bosco canditi; a circa 20 minuti dalla mescita esce il cuoio e un richiamo al tartufo scorzone. Nonostante l’originalità aromatica, ciò che a mio avviso ne fa lievitare la considerazione è la capacità di mantenere una beva disarmante e una pulizia che invoglia il secondo, terzo, quarto sorso e così via, oltre a un timbro di tutto rispetto e a una lunghezza mai banale. L’Alfiera 1998 è tutto questo, chapeau!
Non so quanti esimi colleghi possano dire di aver bevuto un Barbera d’Asti Superiore, a trent’anni dalla vendemmia, in uno stato di grazia così eloquente, e soprattutto cangiante dal primo all’ultimo minuto. La magia di questo vino risiede nella capacità di evolvere man mano che l’ossigeno diviene protagonista a contatto con la materia. Inizialmente scontroso e dai toni prettamente dark da film di Tim Burton, cambia registro a circa 20 minuti dalla mescita, palesando un profilo speziato, dai toni empireumatici e di erbe officinali da grande amaro: dunque genziana, pepe verde, timo, china e zolfo. In bocca prevale l’equilibrio tra parti sapide e acide, totale assenza di alcol percepito e un corpo leggermente inferiore rispetto all’annata 1998; tuttavia è proprio il finale fresco e dissetante a convincere, soprattutto considerato il fatto che stiamo parlando di un vino che ha trent’anni sulle spalle, e che di sentirsi arrivato non ne ha la minima intenzione.
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Crediti fotografici di Danila Atzeni