La mia estate enoica è stata scandita dalla litania degli assaggi per la Guida vini con la quale ho l’onore di collaborare, e da viaggi organizzati per la stampa che si sono fortunatamente confermati per ciò che dovrebbero essere: occasioni di scoperta, e di riflessione.
Un viaggio dal format diverso dal solito è stato quello che mi ha portato in Sannio, ospite del locale Consorzio di Tutela. Avevo già avuto modo di affascinarmi di questo territorio in una breve puntata lo scorso anno, dove avevo intravisto una tradizione agricola consolidata e orgogliosamente perpetuata, una proprietà piuttosto frazionata grazie alla quale la cura dei vigneti è non meno che certosina, nonché la giustificata ambizione di abbandonare le vie, commerciali ed enologiche, battute, e di cimentarsi in qualcosa di più e di diverso.
Questa mia seconda più approfondita esperienza sannita ha allargato la prospettiva. Non solo una full immersion nelle denominazioni e nei vitigni di riferimento, o un’escussione dei profili della locale Falanghina in forza dei diversi terroir, e nemmeno dei tentativi di venire a capo dell’esuberanza tannica dell’Aglianico in una bevibilità più gentile. Non solo quello, bensì una scorribanda nelle molte attrattive che un territorio sottovalutato e fondamentalmente sconosciuto ha da offrire, e un’osmosi con un sentimento diffuso di appartenenza a un paesaggio fisico, un’eredità storica, un’identità saldamente fondata con tradizioni non solo fini a se stesse, bensì che acquisiscono valenza culturale. Una cultura rassicurante, che non si chiude a riccio in se stessa ma si apre al nuovo, per interagirvi e scambiare il proprio sapere antico con i punti di vista offerti da un’altra prospettiva.
Può parere un’introduzione cervellotica ma è quanto ho provato in un cammino di scoperta che si è man mano precisato in corso d’opera. Ove il vino era solo un tramite, una delle molti chiavi di lettura a disposizione, non necessariamente un focus onnicomprensivo e per questo settario. Impagabile Virgilio di questo cammino turistico-iniziatico, dal belvedere sulla vertiginosa valle del fiume Sabato agli echi dell’antico culto di Iside, era il prof. Mario Collarile, ex pugile ed avvocato in pensione, cultore della storia locale, narrata con un entusiasmo e una teatralità che forse gli derivano dal brillante superamento di una brutta malattia, una terribile esperienza che gli ha lasciato in eredità un’irrefrenabile joie de vivre. Grazie a lui, trascinato dal suo spirito (era semplice) ho scoperto l’attrattiva insinuante di Benevento, il genius loci della sua storia plurimillenaria, la stratificazione delle popolazioni che l’hanno abitata e plasmata, espressa non solo fisicamente nella sua articolazione architettonica, ma anche emotivamente in una koiné mistica, negli echi di culti misterici, nella presenza immanente di streghe giocose e burlone, ma comunque temute, le onnipresenti janare.
Seguiva uno spostamento in un ambiente completamente diverso, ma altrettanto intimamente vissuto: l’agriturismo Le Peonie era una perla incastonata in un contesto praticamente montano. Nella luce calante della fresca serata estiva si stagliavano delle cime che parevano remote, sottolineando l’impressione di trovarsi in un’oasi al riparo degli affanni della modernità. Era il nostro primo cimento gastronomico: il succedersi delle portate iniziava a disfare i faticosi conseguimenti di una dieta speranzosa, e porgeva il destro ai nostri primi assaggi: mi sovvengono degli esperimenti di spumanti Charmat a base di vitigni alloctoni, tecnicamente impeccabili e non particolarmente memorabili, più o meno riusciti tentativi di imbrigliare il carattere imperioso dell’aglianico in graziosi abitini legnosi di taglio internazionale, e soprattutto un delizioso piedirosso l’IGP Beneventano della Cantina del Taburno di succosità accattivante e beva compulsiva, oltre che di versatile abbinabilità. Buonissimo, epitome di un vino di tradizione ma di moderna godibilità tutt’altro che banale. Pertanto, è stato stupore non da poco scoprire successivamente che il vitigno in zona è poco amato e non viene contemplato come complemento dell’Aglianico, al punto che la sua presenza in vigna può ritenersi un passato infortunio, se non un vero e proprio fastidio.
Il mattino successivo ci catapultava in una ulteriore dimensione. Il genius loci promana da un ambiente naturale che nelle estreme propaggini del Sannio si trascolora nell’Appennino Matese, e che può essere fruito dai viaggiatori più sportivi. Nella mia scelta tra le opzioni di escursioni che ci erano state proposte, ho deciso di inventarmi tale, ed ho affrontato la mia prima esperienza di canyoning, ovvero la discesa di un torrente, di volta in volta camminando sulle pietre che ne costituiscono il letto, lasciandosi trascinare dall’acqua nelle rapide (con annessi salti nelle cascate) o fluttuando nella corrente come in utero, in un impagabile silenzio, rimbalzando dolcemente come in un flipper rilassato tra un costone roccioso e l’altro (ero stato munito di muta e caschetto protettivo), cercando di prolungare la sensazione quanto più a lungo possibile.
Niente di tutto ciò sarebbe potuto succedere senza il gentilissimo Mario Prece, guida escursionistica per la quale la pazienza era almeno pari all’attenzione a garantire la nostra incolumità. Pazienza nel sopportare escursionisti maldestri anche nell’indossare la tuta come il sottoscritto (e chi l’aveva fatto mai?), come nel raccontare storie ed aneddoti sulle strutture che incontravamo lungo la nostra discesa: sbancamenti delle rive per facilitare la regimazione delle acque per poterle attingere, un ponte impeccabilmente costruito senza muratura imperniato su una chiave di volta, più di un’emergenza botanica e faunistica.
Anche perché la famiglia (trattasi di azienda familiare se ve ne è una, adesso condotta al femminile) non ha dormito sugli allori, ha continuato la sperimentazione in campo, e provvidamente ha saputo unire alla Falanghina del Beneventano quella dei Campi Flegrei. Sì, poiché per quanto l’indicazione sul Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite sia univoca (ovvio esempio di italica semplificazione/confusione), trattasi se non di due vitigni diversi, almeno di due biotipi MOLTO distinti. Assemblarli ha significato conseguimenti di profondità e articolazione aromatica e gustativa che non tutte le etichette della categoria possono vantare. Come nella Vigna Segreta, paziente reimpianto di selezioni massali, che tra gli svariati gradevoli assaggi spiccava per golosa succosità fruttata, propulsa al palato da una freschezza varietale che la indirizzava lungo una spina dorsale sapida, sulla quale si prolungava senza infingimenti. Davvero un bicchiere riuscito, per il suo equilibrio e la sua “ambivalenza”: può risultare gradito tanto a chi predilige sorsi più polposi, quanto a chi ricerca vini più verticali, caratterizzati da acidità e saporosità.
L’impressione era di una qualità media accettabile e di una godibilità generalizzata, con ovvie eccezioni di referenze un poco diluite e più vegetali nei profumi, o altresì ambiziose nei termini di una magniloquenza espressiva (leggi ricerca di maturità spiccata) che poteva sfociare in una piacioneria un poco fine a se stessa, che non dava un’impressione effettivamente territoriale. I conseguimenti migliori erano quelli che trovavano la quadratura del cerchio (non disgiunta da una sapiente mano enologica) per precisa scelta vendemmiale e/o scelta dei cloni più avveduta e/o rese per ettaro più misurate e chissà cos’altro, riuscendo a contemperare presenza fruttata senza rinunciare a toni più fragranti, con una bella spinta acida che facilitava la beva e una non indifferente presenza salina. Non è probabilmente un caso come spesso questi vini più profondi e riusciti paressero appena reticenti all’olfatto, in attesa di dispiegare tutto il loro potenziale. Dopo tutto all’epoca della mia visita (metà luglio: come suole i miei resoconti sono a carburazione lenta) non avevano ancora trascorso una liberatoria estate completa in bottiglia. Epitome di quanto sopra, l’Alfabeto della linea di prodotti Janare de La Guardiense e la Falanghina del Taburno di Fontanavecchia, ma altre etichette si potrebbero citare. Fermo restando che selezioni magari più ambiziose, vinificate con passaggio in legno, ecc., probabilmente non erano presentate poiché escono sul mercato con tempistiche più lunghe.
I Rosato a base Aglianico facevano pensare a una certa consentaneità del vitigno alla tipologia. Singolare come le rispettive caratteristiche corrispondessero alla tonalità di colore, almeno a braccio. Ovvero, chiaretto per le referenze più diluite, un tono buccia di cipolla e/o ramato per un poco di frutto in più, infine un vero e proprio cerasuolo per dei palati più volumici e sapidi. Certo, dieci soli campioni non sono abbastanza anche solo per tentare una generalizzazione: viene da domandarsi se cotanta scarsità fosse dovuta a scarsa fiducia nel potenziale commerciale della tipologia, o magari al fatto che altre aziende avessero già venduto tutta la loro produzione (lo auguro sentitamente).
Hai voglia a dire che l’Aglianico del Taburno è meno aggressivo del suo confratello irpino. dieci soli vini, e il rimpianto che non fossero stati di più, in quanto ve ne erano di maestosi ed emozionanti. Non si deve “temere” la struttura tannica del vitigno, bensì accettarla, abbracciarla, immaginando felici abbinamenti con pietanze sostanziose, di questi tempi, non solo estivi, poco frequentate, e contemporaneamente divinando il potenziale di evoluzione, cercando di intravedere un futuro spesso sperabilmente radioso. La trama polifenolica è vieppiù infiltrante, pervasiva, ma si possono intravedere differenze di identità e stile a livello di tattilità, di asciuttezza del finale di bocca, di sua declinazione aromatica in termini di componenti varietali e di terroir. Come sempre in vini rossi giovani di gran corpo, e tanto più in questa occasione, la presenza tannica può essere debordante, ma si può sempre apprezzare se corrisponda a una salivazione all’atto della deglutizione ed immediatamente prima (mi si perdoni il tecnicismo), e se permanga la presenza della componente fruttata senza eccessiva amaritudine: segni questi che il tannino non è acerbo, bensì semplicemente giovane, e che deriva molto più dalle bucce e dai vinaccioli che non dal legno usato per l’affinamento.
Tutto ciò in generale, a livello di contestualizzazione degli scarsi assaggi. Nello specifico, alcuni campioni erano inficiati dal timore di aver ecceduto nell’estrazione, o se si vuole quasi dal desiderio di annichilire il prorompente carattere dell’Aglianico. Risultavano quindi irrigiditi dal rovere, che ne frenava l’espansione del frutto; accentuavano i loro caratteri più opulenti, approfittando senza ritegno dell’acidità varietale per tentare di compensare l’esasperata ricerca di volume, che li rendeva, se non altro, monodimensionali. Vivaddio, ve ne erano almeno altrettanti molto più risolti, sorprendentemente levigati senza essere artefatti, che avevano saputo non rinunciare alla levità. Il fatto che parlando di Aglianico ciò sembri quasi un ossimoro, la dice lunga sulla loro qualità. Se ciò dipenda dal terroir, dallo stile aziendale o da un’annata fortunata ovviamente non so dire, troppo numericamente scarsa era la sequenza degli assaggi. Ma mi corre l’obbligo di citare i vini della Fattoria La Rivolta, tanto chiuso quanto già espressivo di ciliegia fragrante e pepe verde (un altro ossimoro!), nonché magnifico per equilibrio e futuribile. E il 24 Carati dei Viticoltori di San Martino, nome di fantasia per la linea di vini biologici della Cantina di Solopaca, saporito e più maturo, di beva sorprendentemente golosa per la massa che esibisce.
Era ormai tardo pomeriggio quando il nostro autista sfidava le pendenze delle anguste strade che si arrampicano sul Taburno, alla ricerca di vigneti sempre più estremi, anche se raramente si ravvisa l’uso dei terrazzamenti. La natura è talmente rigogliosa che non pare nemmeno di essere in montagna. L’annosa vigna da noi visitata era magnificamente esposta al sole anche pomeridiano, e quanto mai ben ventilata. In quelle condizioni, e sui suoli vulcanici quanto mai drenanti, la Falanghina ha l’opportunità di attingere a concentrazione, maturità e profondità non scontate senza abdicare alla sua verve acida. Caso mai abbisognassero ulteriori prove a conforto della tesi che il terroir conta.
Rimaneva una cena di commiato, presso la Locanda della Luna a San Giorgio del Sannio, ennesima esperienza gastronomica di questo viaggio ove lo studio accurato di una tradizione gastronomica impareggiabile emenda lo stilema della trattoria fuoriporta sublimandolo in una ristorazione di livello superiore. E non stonava il saluto istituzionale del presidente del Consorzio Libero Rillo, che raccontava con entusiasmo dei recenti progressi dell’associazione, e dei risultati in termini di visibilità che un personale ridotto ma agguerrito era riuscito a conseguire, riferendoci con fierezza della comunanza di intenti tra le aziende.
Alla Locanda, una ariosa terrazza si apre su un dolce paesaggio montagnoso, di cui al buio potevamo solo intuire la bellezza, ove luccicavano le luci dei borghi. Ripensandoci, tutto ciò assumeva un valore simbolico: avevo sperimentato un press tour di argomento enoico, che era riuscito ad approfondire l’argomento vino facendoci conoscere anche e soprattutto tutt’altro. Come se note di degustazione, schede tecniche e quel che segue fossero solo un velo di Maia al di là del quale si erano disvelati un’anima, un paesaggio, un genius loci. Che mi salutava ora con le sue luci, certo quanto il sottoscritto che fosse un arrivederci, e non un addio.