Ivan Giuliani
Piemontese trapiantato in una Toscana mezza ligure, quella della Lunigiana, Ivan Giuliani, cinquant’anni compiuti lo scorso 13 marzo, è un vignaiolo di temperamento le cui peculiarità diventano in lui prerogative: curiosità, dinamismo, etica, frontalità, perfezionismo.
Gli ettari complessivi sono 24 in tre diversi comprensori per un volume annuo di circa 200.000 bottiglie.
Ai vecchi impianti a pergola di ottant’anni (5000 piante per ettaro) si affiancano quelli nuovi ad alberello ad alta densità (11.500 piante), con pali di acacia come tutori. Ci sono voluti cinque anni per mettere insieme questo piccolo patrimonio: nel 2018 sono iniziati i lavori di pulizia e recupero, nel 2019 i nuovi impianti. «Qui ci ho lasciato il sangue».
Dall’appezzamento sotto il Telegrafo di Riomaggiore chiamato Trevandasca, esposto a sud-ovest, che digrada dai 450 ai 300 metri, la pendenza è impressionante e la vista sull’azzurro del mare assoluta, quasi abbacinante. «Qui si sente il profumo dell’erica, detta “stippa”».
Il Cinque Terre 2022 è composto da bosco, vermentino, albarola e ruzzese. «Il ruzzese è un serbatoio per l’acidità, il vermentino garantisce aromaticità mentre il bosco il tannino». Breve macerazione sulle bucce, fermentazione in acciaio e sei mesi sui lieviti. Il colore è un paglierino intenso, il naso una screziatura continua di macchia locale (eriche, arbusti, ginepri), il palato è polpa piena e tagliente di erbe e selva, una serie di agrumi arabescati, una cassa di risonanza ancora trattenuta che esploderà in futuro, il finale è asciutto, salivare, persistente.
«Lavoro tutti i miei vini in semi-riduzione, ma qui l’ossidazione è perfetta per il bosco. Le uve vengono appassite fino a Natale, con una disidratazione lunga che concentra anche l’acidità. Il vino fa una fermentazione lentissima e poi finisce in damigiana».
Il 2019 – 15% di alcol magnificamente incorporato – ha colore dorato ambrato, sentori ammalianti di ginepro, artemisia, mandarino, amaretto, scorza d’arancia. La bocca è setosa, più cremosa che viscosa, sublimata e invitante, fresca, persistente, con una nota di amaretto intinto nell’alcol, tanta sapidità e una persistenza pazzesca di scorza di mandarino.
Assaggiamo a pranzo i tre Colli di Luni Vermentino.
Il Vigne Basse 2022 – è il vermentino (con saldo di albarola) di una dozzina di cloni che arrivano dai 12 ettari di vigneti pedecollinari, dove il vermentino bianco coabita con quello nero – ha polpa, agilità, freschezza. Senti la foglia di pomodoro, la ginestra, i fiori di campo.
«Perfetto per chi non conosce il Vermentino. Fiori bianchi, biancospino ed erbe di campo. Ghiaie, macerazione di una notte e fecce fini».
Il Fosso di Corsano 2022 ha una nitidezza e un “grip”, una reattività che invano si cercherebbero in un altro Vermentino di pari annata, e non solo sui Colli di Luni.
«Prima annata 1996, quattro ettari e mezzo, altitudine tra i 250 e i 370 metri, vigne dai 20 ai 40 anni di età».
Ho degli appunti su delle annate precedenti trascritti durante una visita nell’ottobre del 2019.
Il Fosso di Corsano 2018 sprigiona aria di mare, sprezzature salmastre, poi erbe spontanee e aromatiche, mirto, ginestra e timo. Il sorso è succoso-tonico, un incedere sapido e salmastro. Notevole la persistenza, quasi incessante tra fiore di rosmarino, mirto, alloro, timo e altre erbe spontanee.
«Selezione massale da cinque piante madri dal gambo e raspo rosso, spargolo, poco produttivo. Scisti di arenaria e non ghiaie, più macerazione, più sosta sui lieviti, vendemmie scalari, dalla più fresca a maturazione tecnica alla vendemmia tardiva, unione di elementi orizzontali e verticali».
Il Fosso di Corsano 2017 ha colore brillante, un naso screziato e cangiante di erbe (ancora l’alloro, il timo, ecc.), poi il mare e la nocciola e lo scisto minerale-pietroso. La bocca è piena di succo quanto tonica, laminata, fitta di scaglie pietrose e saporite, di erbe aromatiche, con trazione finale di lunga persistenza. «Non ho praticamente sfogliato».
La freschezza del Fosso di Corsano 2015 – fin da un colore paglierino brillante-verdeggiante – lascia quasi esterrefatti. Il naso sembra ancora in riduzione, le erbe appena tagliate, mentre cominciano a diffondersi i minerali idrocarburici che diventano caratteristici di questo bianco con l’età. La bocca è matura, contrastata: dietro l’alloro c’è un mare che risuona, una pietra che fa salivare.
«Da quando nel 2014 ho iniziato a lavorare per caduta senza la pompa, non tolgo più niente al vino».
«È la particella 343 su un costone di roccia ricco di ferro e manganese. Scisti e micascisti con un pH tra i più bassi d’Italia, 4,5-4,7. Era la vigna dello zio dove giocavo da ragazzo, nel 1995 ho fatto il Ronco dei Pini, solo in quell’anno, e ora l’ho ripreso». Al naso sembra quasi un Riesling, in bocca è ricco e slanciato, punto d’incontro tra mare e sole.
Siamo ora nella sala degustazione di Terenzuola, ricavata in una soffitta quasi bohémien.
Il Vermentino Nero 2022 – dalle vigne pedecollinari di cui sopra – ha colore rubino leggero, un naso stuzzicante di lampone fresco, fiori e pepe, una bocca succosa, tonica, pepata, lunga, invitante, dal tannino trasparente.
«Volevo valorizzare il vermentino nero, farlo diventare popular. La prima annata è stata la 2004 dopo due versioni in rosa. All’inizio questo rosso aveva riduzioni, puzzette, fecce, era un vino un po’ rocambolesco, poi piano piano, in maniera deduttiva, ho iniziato a inserire dei sistemi soffici, ho creato un piano in più nella cantina gravitazionale, abbiamo cominciato a usare un po’ di legno per la malolattica ma i travasi producevano un effetto boomerang. Finché ho trovato una vaschetta a cuccia di cemento da 7 quintali e dal 2006 ho introdotto il cemento e le botti austriache che uso anche per La Merla, e ho cominciato ad assaggiare certi dirimpettai di un certo lignaggio come Morgon con i suoi gamay, strizzando l’occhio alle macerazioni semi-carboniche, con grappoli interi e chicco intero. Sono sparite la pompa e altri mezzi meccanici e ora lavoriamo su quattro piani e mezzo in verticale, fa poca feccia e la fa fine, che è poi quella che serve, e il risultato si sente».
La Merla, come si chiama dal 2020 (prima era La Merla della Miniera), da quando cioè viene prodotta in botti austriache da 20 ettolitri e non più nel legno piccolo, proviene dall’omonima varietà di canaiolo nero dal raspo rosso, più un saldo di massaretta. Il 2021 ha colore rubino vivo e brillante, impronta di frutto materico e profondo al naso, palato pieno, selvatico, dai toni di ciliegia e marasca, dagli echi balsamici, da un tannino che rinsalda e rinforza. Che abbia bisogno di tempo per evolvere al meglio («fa la “steccata” o “piemontesina”, cioè il cappello sommerso, che gli dona tanto tempo e gli dà freschezza»), lo dimostra un assaggio della Merla della Miniera 2016: frutto nero mediterraneo, cenere, sorso tremendamente succoso e avvolgente, ferroso, ematico, pulsante. Energico e pepato, rilascia note di alloro e ginepro.
«È un vino che definisco pagano: sanguigno e carnale». Notevole il tannino che spinge. «Vinificazione con i raspi, 90 giorni di cappello sommerso “nebbiolizzato” – perché la buccia e i vinaccioli gli assomigliano –, fermentazione alcolica e malolattica in cemento naturale “spazzolato”, un anno di rovere di Slavonia (fiore) e vecchie barrique (torchiato), sei mesi di cemento, dieci/dodici mesi di bottiglia, esce dopo ventisette mesi».
Siamo ora tra le Alpi Apuane, di fronte alle spettacolari cave di marmo di Carrara, blocchi bianco-grigi che si stagliano sul cielo blu di una fredda e soleggiata giornata di metà dicembre. È difficile rimanere indifferenti a questo angolo di viticoltura estrema che da una parte guarda le montagne e dall’altra il mare. Non lo fa nemmeno Ivan, coinvolto in prima persona in questo paziente, smisurato, oneroso recupero viticolo e ambientale: 4 ettari suddivisi in più appezzamenti o “quadri” nel comune di Carrara con 1000 ore di lavoro manuale e rese di 30-35 quintali per ettaro. Lo sguardo gli si accende e comincia a raccontare storie di popoli e migrazioni.
«A Carrara nasce l’anarchia contro Roma. I Romani erano arrivati qui nel 177 a.C., fondando la colonia di Luni e mandando i coloni locali nel Sannio: Circello fu fondata da loro».
Raccontata da Tito Livio, la deportazione di 40.000 Liguri Apuani nel 181 a.C. per mano dei consoli romani Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego è una storia poco conosciuta. «Quelli che sono rimasti hanno cominciato a lavorare sui terrazzi. Questo è il regno della malvasia di Candia che arrivò con i greci dell’isola di Creta, i quali trovarono in queste vallate un luogo simile al loro d’origine. Ma tutto questo territorio, che dalle Apuane arriva a Pontremoli, è ricco di varietà: se ne contano circa 200. Questa è anche la zona del vermentino nero, mentre la barsaglina o massaretta arriva, come dice il nome, da Massa, oltre quella collina, con il cru San Lorenzo che era della cantina Cima» mi dice, indicando il crinale a est.
«Mio nonno lavorava in cava con le slitte e i buoi per trasportare blocchi di marmo da 80 tonnellate. Era un lavoro talmente pesante che a un certo punto è andato a fare le gallerie in Svizzera. Qui nella Apuane è come nelle Cinque Terre: tutto è in caduta libera e parliamo di un territorio di 2000 anni. Ci sono calcari e terreni acidi perfetti per le varietà locali. Nel 1993 la damigiana costava 300.000 lire, 6.000 al litro per lo sfuso che veniva servito nelle frasche con uova, lardo di Colonnata e torta d’erbe, il “brunch” dell’epoca».
«Ci vogliono 30.000 euro solo per la gestione dell’erba con sei persone. Per i trattamenti servono 60 chilometri di gomma, calcolati per le due pareti fogliari del filare.
Ci sono ciottolati secolari che univano a zig zag la “forma” alta e quella bassa. Erano i camminamenti per gli asini. Mio zio faceva gli scassi con il bue. Oltre al vermentino bianco ci sono anche le malvasie e i moscati in più varietà e il ruzzese. Nei quadri tendo a interpretare i vitigni per microclima: parte bassa buccia più spessa, parte alta buccia più sottile. Ci sono vigne “tribolose” piantate a spina cioè di sbieco, non secondo le curve di livello. In Candia applico la biodinamica con tisane e i preparati 500, 501».
Il Permano, prodotto dal 2015, è dedicato al padre Ermano. Vi gravitano una molteplicità di uve, «tra cui le aromatiche come vermentino, malvasia e le sei/sette varietà di moscati; le acide come verdesca e verdella; e le tanniche: greco, durella, trebbiano giallo, trebbiano rosa e la bracciola, che sembra un’albana». Macerazione per una ventina di giorni e maturazione sulle proprie fecce in cemento. Il 2021, ancora compresso, ha colore dorato, nerbo, vigore e note di frutta a pasta gialla abbinate a sentori di erbe aromatiche. Il 2017 ne mostra l’evoluzione nel tempo: fiori gialli, ginestra, note salmastre, impatto succoso, tannino sottile, allungo espressivo e contrastato. «È fresco, tannico, morbido. È l’Arca di Noè subito dopo la fillossera».
Infine, il quadro Tommasella, la vigna dei nonni, 4000 metri quadri con piante prefillossera del 1887 di vermentino nero più malvasia e massaretta . Il terreno è calcareo-argilloso con presenza di carbonati derivanti dalla decomposizione arenaria di scisti e micascisti, le pendenze sono aspre con 150 metri di dislivello tra la parte bassa e quella alta. Ricoperti dall’erba ci sono circa 700 scalini con le alzate in marmo di Carrara. Un giardino gradonato dove nasce il Forma Alta (vermentino nero 85% e massaretta). Fermentazione con parti di grappoli e chicchi interi per circa tre settimane. Maturazione per due anni in cemento per il vermentino nero e in un vecchio tonneau per la massaretta. Colore rubino vivo, un naso che sembra uno Châteauneuf-du-Pape: macchia boscosa e mediterranea, menta, pepe, gariga, frutti neri. Palato pieno, succoso, tonico, ritmato, incisivo, piccante, con persistenza sanguigna e selvatica.
«Cinque anni fa a una cena di coscritti ci siamo chiesti: “Che cosa faremo per i nostri 50 anni?”.
Ma ho fatto un ultimo giro, ho lasciato l’auto al Santuario di Boca e mentre passeggiavo sulla Traversagna del porfido tra Boca e Grignasco mi sono detto: “Voglio fare una cosa qui”. Per tre anni sono stato zitto per non pestare i piedi agli amici, a partire da Christoph Künzli delle Piane.
Assaggio in anteprima il Colline Novaresi Contrordine 2022 che uscirà a marzo 2024. Proviene da un ettaro e mezzo di nebbiolo vinificato con metà della massa a cappello sommerso. Ha colore granato leggero, un bouquet di fiori freschi e secchi al naso, un sorso succoso, sensuale, setoso, tonico, balsamico, arioso, fresco, con allungo irresistibile di foglia di tè.
Nel frattempo il Boca 2022 di Ivan (5 quintali d’uva e un tonneau) uscirà nel 2025. «Ne vedremo delle belle» dice.
Fotografie dell’autore e di Britta Nord.