Con lo Hierà, il vino rosso eoliano prodotto da Hauner con le uve dell’isola di Vulcano, è stato subito un colpo di fulmine. L’ho assaggiato per la prima volta lo scorso giugno a Salina in cantina da Carlo Hauner jr. e così ho avuto anche la possibilità di degustare in comparazione il 2006, attualmente in commercio, con il 2007 in uscita nella primavera 2009. Sull’emozione di questo assaggio ho deciso che dovevo andare a tutti i costi a vedere i vigneti di Vulcano. La mia vecchia passione per la vitivinicoltura delle isole minori è tuttora intatta e a luglio, mentre ero in vacanza a Lipari, ho colto l’occasione. E così grazie a Stefano Mirenda, l’operaio responsabile dei vigneti di Hauner ho potuto passare un po’ di tempo nel vigneto.
Che Vulcano sia un posto particolare te ne accorgi appena arrivi al porto: le esalazioni sulfuree non lasciano dubbi. D’altra parte cosa aspettarsi di diverso. Secondo i Greci questa era l’isola di Efesto, il dio del fuoco e della metallurgia. Nella sua officina “vulcanica” lavoravano tre Ciclopi dalla pelle scura, tre bruti di nome Sterope, Bronte e Arge, i quali, fumosi e lordi di sudore, percorrevano incessantemente gli anfratti comunicanti dell’Etna, di Stromboli e del Vesuvio, dove raccoglievano i minerali per forgiare i potenti strali di Zeus. Insomma “robba forte”. Ma afrori di zolfo a parte, i colori, la rada vegetazione, e la morfologia danno l’idea proprio di un posto limite. L’isola di Vulcano, così come è oggi, è il risultato della “saldatura” delle eruzioni di quattro vulcani: Lentia, Vulcano Piano, Vulcanello e Gran Cratere, quest’ultimo è l’unico attivo e tuttora emette fumi.
L’isola, che per molti secoli fu disabitata, fu sfruttata, specialmente nell’Ottocento, come miniera a cielo aperto per estrarre zolfo, allume, sale ammoniaco (cloruro di ammonio), pomice. La viticoltura invece si deve a uno scozzese, Sir James Stevenson (1822-1903) il quale dopo aver acquistato gran parte dell’isola (1870) sviluppò l’attività mineraria, impiantò i primi vigneti di cui si ha notizia, e contribuì ad accrescere la vegetazione con alberi da frutto e tanti fichi. All’improvviso però, il 3 Agosto 1888, il vulcano esplose uccidendo i “coatti” che lavoravano nel cratere. L’eruzione continuò sino al marzo del 1890 seppellendo sotto la sabbia e la cenere buona parte del lavoro di Stevenson, il quale vista la malaparata, salito a bordo del suo yacht a vapore, il Firefay, fece rotta per l’Inghilterra e non tornò mai più.
Sull’isola rimasero pochi vulcanari (gli abitanti di Vulcano si chiamano così, i vulcaniani sono quelli del Sig. Spock di Star Trek) per lo più contadini e pastori. E infatti la pastorizia ancora oggi è una delle poche attività agricole rimaste. Certo di verdi pascoli, così come li potebbe intendere in Valle Padana, nemmeno l’ombra, le capre però non vanno tanto per il sottile e si accontentano di quello che c’è. La viticoltura oggi si deve a Carlo Hauner jr. che nel 2000 ha impiantato in località Piano, una sorta di altipiano molto fertile nella parte nord est dell’isola, 2 ettari di vigneto con uve calabrese (nero d’Avola), alicante e nocera, oltre a qualche filare di grillo ad un’altitudine di 400 metri s.l.m.
Non è stato facile impiantare perché il terreno aveva una crosta dura e compatta, che è stato necessario frantumare e anche perché, qua e là, le infiltrazioni di zolfo in profondità hanno impedito a molte barbatelle di attecchire. Comunque mentre a Salina si combatte tutto l’anno con l’oidio, qui i trattamenti o non vengono fatti o sono ridotti al minimo. La piovosità si aggira sui 500 mm l’anno ma più che altro lo sviluppo della vegetazione è favorito dall’umidità che durante la notte si condensa: il tasso medio annuale è del 76%. E qui il nemico non sono le crittogame bensì capre, conigli selvatici e volatili di tutti i generi: se per i primi una rete a maglie fitte che circonda tutto il vigneto rende le irruzioni meno facili, dagli “attacchi” dal cielo non c’è difesa. Insomma per i grappoli non c’è scampo. Amo questo vino proprio perché è tutte queste cose che ho raccontato!
Il Sicilia Igt Rosso Hierà 2006 è ottenuto da uve calabrese (60%), alicante (30%) e nocera (10%) e ha un colore rosso rubino molto concentrato con riflessi violacei; al naso la confettura di more e di frutti rossi maturi è molto intensa però si avverte anche un leggero speziato, di buona finezza. In bocca il vino è di grande struttura, morbido, con l’alcol che addolcisce il tannino. Nel finale prevale lo speziato e la liquirizia insieme ad una particolare quanto speciale nota “vulcanica”. Il Sicilia Igt Rosso Hierà 2007, ancora in affinamento in bottiglia, ha colore rubino molto intenso con una spiccata unghia violacea; al naso il fruttato è fine ed elegante, con la ciliegia sotto spirito in evidenza insieme ad un po’ di confettura di frutta rossa; in bocca la struttura è pronunciata ma equilibrata e anche la morbidezza è misurata. La sensazione, rispetto al 2006, è di una maggiore armonia ma anche di una freschezza più pronunciata. Ottima la persistenza e grande la piacevolezza di beva.
Il nome del vino è una vecchia denominazione greca dell’isola di Vulcano che significa “isola sacra” mentre l’etichetta è la riproduzione di un quadro di Carlo Hauner sr. del 1978, che riproduce la Sciara del Fuoco di Stromboli, isola che dà il nome al dipinto. Ultima cosa. Hierà non solo è buono ma ha un rapporto qualità/prezzo abbastanza favorevole. In enoteca si dovrebbe aggirare sui 12,00 Euro
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