VERONA – È bastato trascorrere un giorno alla “fierona” del vino per eccellenza, anzi sarebbe bastato forse anche meno, per avere, perlomeno a prima vista, la sensazione di trovarsi in un anno qualsiasi, e non in quello dove la parola ripetuta con ossessione è stata “crisi”, nel quale anche chi aveva sempre professato fede cieca nel libero mercato, magari opportunamente incontrollato, oggi plaude se possibile ancora più convinto ad un bagno rigeneratore del capitalismo e ad un sano ritorno all’etica negli affari. I comunicati ufficiali di Veronafiere parlano di un consuntivo di 150 mila presenze, un terzo delle quali arrivate dall’estero e di incremento (per esempio, +5% il primo giorno) di buyer stranieri. Ma quel che più conta, forse, è che proprio il colpo d’occhio, l’affollamento, la difficoltà di fendere i flussi di “anime perse” che macinano chilometri nei lunghi corridoi dei padiglioni, siano apparsi gli stessi di sempre.
Ma cos’è Vinitaly? Più volte ce lo siamo chiesti, e alla fine siamo arrivati alla conclusione forse più ovvia, e cioè che Vinitaly è lo specchio dell’Italia, e quindi implicitamente soggetto imprevedibile e multiforme, quella caratteristica che ci fa guardare da parte degli stranieri come se fossimo marziani o semplicemente genialoidi ma irrimediabilmente ambigui. È la fiera dedicata al vino più grande del mondo e, come detto, probabilmente in crescita di interesse; è la fiera in cui convivono gli sciami vocianti che inseguono sfiancati ma divertiti stand dopo stand, è un po’ Prowein, un po’ folklore, e un po’ democratica educazione alla bevuta di qualità. È orgoglio regionale negli stand, è curiosità ed ammirazione dell’altoatesino per il siciliano e viceversa, ossia collante nazionale.
Il rovescio della medaglia è che il multiforme può nascondere in realtà l’amorfo, l’incapacità di scegliere una strada netta e certa fra, ad esempio, un sano bagno di folla, veline, long drink, spettacolini, e una (difficile) via italiana alla serietà della kermesse di Dusseldorf. L’ambiguità, si diceva, di un luogo che sembra allegramente democratico, ma che in realtà è spesso impenetrabile, dove teoricamente si dovrebbe essere tutti uguali ma dove in realtà si intravedono gli inaccessibili privé delle aziende dove si fanno i veri giochi. E il privé inaccessibile e scostante, ma indispensabile per il B2B con il cliente che conta, potrebbe essere svincolato o scorporato dalla caciara dei gruppi allegramente alticci quando arrivano le cinque del pomeriggio, o sono piuttosto irrimediabilmente legati, come i successi e la disorganizzazione che convivono da sempre nel miglior luogo comune dell’Italia?
In attesa di trovare risposte convincenti, ci teniamo questo Vinitaly arrabbiandoci ogni anno per la confusione, per le temperature insostenibili, per gli ingorghi apocalittici, e ci torniamo inevitabilmente ogni anno.
Le immagini inserite nell’articolo sono tratte dal sito vinitaly.com. Le altre sono di ArchivioAB
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