“Fromage au lait cru“, “Queso de leche cruda“. Queste scritte, molto invitanti per chi se ne intende, occhieggiano dalle etichette di tanti formaggi francesi e spagnoli. E non solo nei negozietti di nicchia o di delikatessen, ma anche dagli scaffali della grande distribuzione. Latte crudo! Un’accoppiata di parole che invece spesso qui in Italia spaventa, la si pronuncia sottovoce al produttore come riferendosi agli esiti di qualche pratica esoterica.
O la si pronunciava, perché forse finalmente adesso l’orgoglio del latte crudo si fa sempre più scoperto, trainato dalla voglia di naturalità che pervade il momento attuale. Orgoglio scoperto per chi il latte crudo può lavorarlo “a bottega”, potendo controllare al meglio i due elementi essenziali senza i quali far cagliare il latte alla temperatura compresa fra i 30 e i 40 gradi, che è poi quella a cui esce dalla mammella della pecora, porta a risultati disastrosi, oltre che pericolosi. I due elementi sono l’igiene assoluta e la catena del freddo, perché solo con l’igiene assoluta e il controllo della temperatura si può rallentare l’implacabile moltiplicazione batterica che inevitabilmente si verifica quando la pastorizzazione non ne ha ridotto le potenzialità, trasformando però anche il latte e il formaggio in qualcosa di diverso. E la natura, sempre saggia, rende impossibile “barare” con il latte crudo. Senza requisiti di sanità e di qualità, il processo di caseificazione porta a risultati che nel giro di ventiquattro ore vanno a finire nell’immondizia per la loro “non edibilità”.
Un luogo dove la produzione di formaggi a latte crudo è tutto meno che sussurrata è il Caseificio Pinzani, alle porte di Volterra, anzi proprio nel territorio di Volterra da quando si è spostato nella nuova sede, trasferendosi di quelle centinaia di metri sufficienti per abbandonare il comprensorio di Casole d’Elsa e con esso la provincia di Siena. Se non altro per le sue quote di produzione di formaggi di pecora a latte crudo che parlano da sole: oltre il 90% nelle provincie di Siena e Pisa, l’85% nella Toscana, (stimato) il 45% in Italia. Dunque una produzione su grande scala, come illustrano anche le seguenti cifre: il milione di litri di latte ovino all’anno lavorato nel vecchio stabilimento è salito a due milioni nel nuovo, con la prospettiva di raddoppiare a quattro fra il 2010 e il 2015. Numeri che consentono la presenza anche nella grande distribuzione (leggi Esselunga) e che sono stati raggiunti grazie al lavoro dei pastori selezionati dislocati fra Balze Volterrane e Crete Senesi. Ad essi, che sono il primo anello di una preziosa catena, viene richiesto di non usare antibiotici per la cura delle malattie, di non usare insilati (che provocano i gonfiori tardivi nelle forme di formaggio) e di garantire sulla acidità di partenza del latte. Poi subentra il grande dispiego di tecnologia e know-how di Pinzani per arrivare al risultato finale, ossia i pecorini a latte crudo delle Balze Volterrane, quelli delle Crete Senesi, quelli aromatizzati allo zafferano di San Gimignano o al tartufo di Volterra, quelli ottenuti con caglio vegetale (di cardo), fino ad arrivare ad un “blu”.
L’intuizione di Guido Pinzani non fu tanto nell’iniziare col latte crudo, perché nel 1969 i pastorizzatori non esistevano o erano irraggiungibili, quanto nel continuare a farlo quando essi divennero a portata di portafoglio per tutte le aziende, anche le più piccole, ossia nel non cedere alla filosofia secondo la quale “la vita è pastorizzazione”. A questo percorso fortunatamente credettero quasi subito quelli della milanese Peck, primo grande cliente nel 1972, seguiti dal bistellato Arnolfo di Colle Val d’Elsa, per arrivare a Heinz Beck che ha cinque “Pinzani” nel suo carrello di trentasei formaggi. E a questo percorso sembrano fortunatamente arrivare sempre più consumatori dal palato smaliziato che si accorgono della differenza fra formaggio e formaggio, dando un aiuto a chi, piccolo o grande, usa la cultura e magari anche un po’ di tecnica per avvicinarsi il più possibile ai sapori naturali.
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