Un piccolo regalo di Natale per tutti i lettori. Un regalo che sa ti di terra, di fatica, di forza e umanità. Lo spunto mi è stato dato da un amico produttore di vino che ha vissuto, vive e vivrà con il cuore e con il corpo queste sensazioni pure e limpide. Non vuole che si sappia il suo nome (conosce ancora la modestia…), ma molti lo riconosceranno subito. Un grazie enorme a lui e Buone Feste a tutti.
Io arrivai in cascina quando Gina era già al lavoro da parecchi anni. Mi trattò subito bene e diventammo amiche per la pelle. M’insegnò tutti i segreti del mestiere: come riconoscere l’albero migliore, come sentire il profumo in mezzo a mille olezzi a volte anche sgradevoli, come scavare senza rovinare la gemma preziosa e delicata, come riconoscere da lontano un “nero” da un “bianco”. Lei era anche in grado di intuire in anticipo il peso del prezioso dono della terra: quando scavava con maggiore ansia e affanno, il risultato era sempre meraviglioso. Io cercavo di imitarla, ma non ci riuscivo, doveva essere una dote naturale.
Gina era proprio speciale. Oltre che esperta e precisa era di una bellezza sfolgorante. Alta sulle zampe, camminava a fianco di Pietro come una regina. La ciocca nera che le copriva l’occhio destro le dava un tocco di nobiltà, che non avrebbe mai fatto pensare al duro lavoro che eseguiva. Io ero più tozza, provenivo dalla pianura saluzzese e non riuscivo a muovermi con la sua rapidità e scioltezza. Gina aveva trascorso l’infanzia tra le montagne che vedevano nascere il grande fiume Tanaro, lassù al confine tra Piemonte e Liguria. Sapeva benissimo come saltare tra i dirupi, infilarsi in un fosso, scalare un ripido pendio, districarsi tra i rovi senza graffiarsi.
Comunque facevamo una bella coppia. Pietro era fiero di noi. Quando ci portava a passeggio e sentiva i commenti degli amici per la strada, sorrideva leggermente e ogni tanto ci dava un colpetto sulla schiena. A volte un pezzo di grissino anche se non avevamo ancora iniziato a lavorare. E noi capivamo che qualcuno aveva fatto un apprezzamento lusinghiero nei nostri confronti. Non provai mai invidia per Gina. Era molto più bella e appariscente, ma era buona e gentile e in lei trovai molto più che un’amica. Forse aveva capito la mia durissima infanzia, quando io e mia madre fummo abbandonate da quel bastardo ingrato di mio padre. E mi trattava come una figlia, una sorella, una complice. Io pendevo dalle sue labbra in ogni momento e in ogni occasione.
L’estate era lunga e non dava molte soddisfazioni. Si lavorava comunque, se non altro per tenerci in forma e per allenarci alla vera “caccia” autunnale. Non vedevamo l’ora di cominciare e Pietro, benché indaffarato nei lavori di campagna e di vigna, ci guardava, capiva e scalpitava anche lui in trepida attesa. Ma prima doveva mettere al sicuro i suoi preziosi grappoli. Quando cominciavamo a sentire il penetrante odore del mosto, sapevamo che si avvicinava il momento dell’azione. Ancora pochi giorni e via, verso la scoperta di nuovi tesori. Anche la moglie di Pietro sembrava comprendere la nostra smania. Ci preparava dei pranzetti con i fiocchi e ci coccolava con particolare cura e attenzione. In effetti, era sempre gentile con noi. Anche quando urlava e colpiva i maschi, colleghi di cortile, che avevano combinato un guaio particolarmente grave, per noi aveva sempre una parola affettuosa. Noi guardavamo i compagni che si allontanavano con la coda tra le zampe con orgoglio e soddisfazione: eravamo un po’ “bastardine”, sicuramente, ma gioivamo della nostra posizione di prestigio.
Pietro ci fece salire come al solito in cima alla ripida collina in cui il vigneto era appena stato potato, poi attraversammo il canneto sempre più fitto e ormai quasi impenetrabile. Infine, giù per il lungo noccioleto abbandonato, invaso dai rovi. E poi eccola. Sola e maestosa, con i rami che sembravano abbracciare la notte, ma invisibile anche da breve distanza, per la sua posizione nascosta in fondo alla piccola valle che scendeva verso il torrente. Pietro si appoggiò a lei con un movimento che pareva più un abbraccio, un gesto d’affetto. Si sedette con la schiena contro il vecchio tronco nodoso, incurante del gelo. Tirò fuori dallo zaino la sua fiaschetta di grappa. Ne bevve un primo sorso per riscaldarsi. Poi un secondo, più sostanzioso, lo tenne a lungo in bocca, facendolo girare nel palato per meglio gustarlo. Si accese lentamente l’inseparabile sigaro: sembrava voler ritardare il momento dell’azione, rendere più vibrante l’attesa. Infine ci liberò. Noi scalpitavamo per l’ansia e cominciammo a correre in tondo per scaldarci. La notte era limpida e freddissima. Il terreno ghiacciato avrebbe reso difficile la ricerca, ma non certo per noi! Il fiato si trasformava in dense colonne di fumo che sembravano ghiacciarsi istantaneamente.
Pietro ci apostrofò con finta severità: “Su, lavative, iniziate a lavorare sul serio. Non siamo venuti qua a giocare!” Ma lo diceva con un sorriso, ben sapendo che anche noi avevamo la sua stessa caparbietà e volontà. Bastarono pochi secondi e sentii immediatamente il profumo tanto atteso. Doveva essere anche un bell’esemplare. Prima di scavare guardai Gina con un po’ di orgoglio. Ma lei non annusava, osservava altrove, sembrava confusa e intontita. Non capii e mi fermai. La mia compagna girò la testa, annusò per aria con gli occhi che sembravano due fari nella notte. Improvvisamente, si buttò giù per la ripida scarpata che portava al torrente, infilandosi in un ammasso di rovi che avrebbe scorticato un cinghiale, ma non certo lei. Volli seguirla, ma feci il giro più lungo e la raggiunsi quando era ormai in riva al piccolo corso d’acqua. Guardava verso l’alto. Accidenti. Eravamo troppo distanti dalla quercia. Possibile che le sue radici arrivassero fin qui? Comunque se Gina aveva scelto quel posto, una ragione ci doveva essere.
Era la nonna di Pietro, la moglie di quel vecchio che se ne era andato quasi in punta di piedi per non disturbare. Capii perché dicevano che era stata meravigliosa. Il suo viso irradiava luce e amore. Con un gesto amichevole e solenne indicò il terreno e poi lentamente scomparve nella notte. Gina emise un forte ululato e poi iniziò a scavare come un’ossessa. Non l’avevo mai vista così affannata. Il buco sembrava un baratro, profondo e interminabile. Poi si fermò e si accoccolò guardando verso l’alto. Pietro stava arrivando, con grande lentezza. Forse aveva visto tutto anche lui? Non lo seppi mai. Notai, però, che l’umidità della notte si era congelata sul suo volto disegnando due ghiaccioli che scendevano dagli occhi e gli arrivavano fino alla bocca semiaperta. Gina lo guardò e la fatica che aveva fatto doveva essere stata enorme. Il sudore le copriva gli occhi e si era gelato a formare due grosse gemme lucenti. Mi sentii un’intrusa ed ebbi un brivido profondo nella schiena che non era dovuto al freddo.
Tornammo a casa in silenzio, ebbri di felicità e di commozione. Dimenticai perfino di scavare dove avevo sentito quel nitido profumo pochi attimi, ore o secoli prima. Il tempo aveva perso valore e con lui tutto il resto. La notte del 24 si preparò una grande cena, impreziosita da quello stupefacente Regalo di Natale. Gina ed io mangiammo in cucina, accucciate vicino al camino. Alla fine Pietro ci dette un pezzo di tartufo bianco a testa. E nessuno della famiglia fece la minima opposizione a quel gesto così insolito.
Fu un Natale bellissimo. L’ultimo per Gina. Se ne andò una mattina di febbraio in preda alla polmonite. La trovarono dopo qualche giorno. Anch’essa non aveva voluto disturbare. Un’espressione dolce e serena le illuminava il viso. Sembrava sorridere. Non riuscii neanche a piangere: sapevo benissimo dove era andata e con chi. Sapevo anche che il prossimo inverno avrei trovato un altro meraviglioso Regalo di Natale e sapevo anche chi me lo avrebbe indicato!
bellissimo !!!! alcuni anni fa sotto le querce verso Ripalda io e Lila abbiamo trovato anche un grande amico.
Buon Natale
Mario
Grazie per questo bellissimo regalo di Natale. Un racconto commovente, e tanto vero.
Ti abbraccio con tanto affetto.
Silvia