Moscato d’Asti. La nuova annata

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MANGO (CN) – Avere a che fare con una ottantina di Moscato d’Asti freschi freschi, annata 2009, non capita tutti i giorni. Il ricordo delle mani appiccicaticce e zuccherose (ma alquanto profumate), dopo aver palpeggiato a lungo i calicini ISO messi a disposizione per l’occasione, desta ancora una sensazione piacevole e l’illusione di essere stato letteralmente immerso nella materia del discutere. E di sensazione piacevole si è trattata anche quella che ci ha visti coinvolti e ben accuditi in una delle culle più preziose di questa tipologia, Mango, a due passi o tre da Neive, incredibile terrazza collinare e indimenticato luogo della memoria partigiana (sul mio comodino, da anni, riposa vigile il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio), più precisamente al Castello di Mango, dove la locale Enoteca Regionale Colline del Moscato, in collaborazione con l’associazione Go Wine di Massimo Corrado, si è messa in testa di organizzare un importante tasting moscatista con i crismi della esaustività.

Intanto, cosa ho da dire io di lui? cioè del Moscato d’Asti? Lo confesso: spesso e volentieri è proprio il Moscato d’Asti l’approdo mio più gettonato quando mi ritrovo a mangiar fuori, e gola (o circostanze) richiedono di chiudere “in dolce”. E’ uno dei pochi vini che, grazie alla giovialità espressiva, al pétillant e alla bassa gradazione alcolica, non mi dà stanchezza. Anzi, mi illude persino di saper lenire i postumi della ennesima abbuffata, per via di quella sua aromaticità così “digestiva”. E parlare di Moscato mi fa venire alla mente un paio di altri argomenti di natura critico-interpretativa: quello della complessità di un vino per esempio, o quello della longevità. Per anni il Moscato è stato (de)rubricato come vino facile, istintivo, con pochi appigli di complessità e per nulla propenso a perpetuare la sua travolgente forza vitale nel tempo. Ora, non c’è dubbio che complessità e longevità costituiscano sempre e comunque connotati importanti, capaci come sono di far schizzare il grado di apprezzamento verso quei vini che ne godono rispetto a quelli che quei connotati, per difetto o per natura, non li possiedono. Beh, io dico però che quando si parla di Moscato d’Asti c’è da tener conto di una cosa, ovvia quanto si vuole ma da ribadire senza sosta: che qui ci troviamo di fronte a un vino dalla espressione varietale unica, che non somiglia a nient’altro. E l’unicità espressiva, indipendentemente dalla complessità e dalla longevità, è un requisito ad alta dignità, direi quasi “d’orgoglio”, che non può passare in subordine. E poi, a ben vedere, se non ci lasciamo abbindolare dalle apparenze o da assaggi fin troppo sporadici e distratti, certi Moscato possono evidenziare doti importanti in termini di sfaccettature aromatiche, intensità, progressione gustativa. Né più né meno come per altri vini sulla carta più avvezzi ad essere accreditati come “complessi”. Insomma, nel mondo del Moscato non è eresia parlare di caratterizzazione. Anche se per questi gioiosi vini rifermentati in autoclave, insieme al terroir (e ve ne sono di esclusivi), conta molto la tecnica e la sensibilità interpretativa, perché trovare vini equilibrati, gustosi, reattivi, dinamici (in una parola, ben CARATTERIZZATI) e non banalmente lievitosi, dolcini, diluiti e zuccherosi , è un traguardo non da poco e non per tutti.

Ma veniamo a bomba sui vini degustati a Mango. Intanto si è trattato dei primi imbottigliamenti, e già questa circostanza può apportare qualche aleatorietà sul giudizio di merito che puoi trarre sulla qualità del millesimo. Un altro dato poi, alla fine del salmo, è emerso con chiarezza: la differenza sensibile in fatto di “manico”. Insomma, una ventina di cantine mi pare che possano garantire una continuità stilistica e qualitativa degne di nota, non così per il resto dei produttori. Detto questo, aldilà delle inevitabili armonizzazioni, che arriveranno, l’annata non è male, perché ha dato strutture adeguate e dignitosa aromaticità. Solo discreta ho appreso la freschezza, se penso a quante volte il confronto acido-zuccherino si è risolto a vantaggio del secondo aspetto, con conseguente appesantimento della bevibilità, da sempre uno degli imprescindibili atout per la tipologia.

Pescando quindi fra gli assaggi più illuminanti e significativi, meritano attenzioni, supplementi di indagine e parole a conforto vini come Tenuta del Fant de Il Falchetto (razza fina, eleganza e portamento di stampo superiore); Lumine di Ca’ d’Gal (complessità aromatica, florealità, spinta, tensione, senza smancerie ad effetto); Massolino (sicuro di sé, di nervo e profilatura, ritmato e ben scandito); Cascina Castlèt (affusolato, segaligno, poco indulgente verso le lusinghe del frutto ma di ottima dinamicità), Bel Piano di Cascina Fonda (grasso e piacevolezza, spuma soffice e fitta, bel coordinamento ed assetto); La Caudrina della famiglia Dogliotti (tempra, mineralità, profilatura); Gianni Doglia (realmente accogliente e gustoso); Le Fronde di Fontanafredda (convincente il suo tratto austero); Fratelli Rabino (seducente e polposo); Paolo Saracco (molto indietro nello sviluppo, ritroso quanto si vuole ma indubbiamente affascinante); Mauro Sebaste (serioso, compassato, dinamico), Cascina Fiori dei Poderi e Cantine Oddero di La Morra (arioso e teso, solo leggermente metallico); Solatìo di Roberto Sarotto (dinamismo, mineralità e dettagli); Olim Bauda (spinta e intensità per un vino che senti potrà crescere in bottiglia); Tenuta San Mauro (aromaticità sincera e intensa per un vino “presenzialista” ma succoso) e, fra le cantine “sorpresa”, Cascina Valon (sottigliezze aromatiche e grazia gustativa).

Ah, c’erano anche annate meno recenti in assaggio, a rinverdire il dibattito sui luoghi comuni che vorrebbero i Moscato colti in piena gioventù (per dirla alla Veronelli). E se Ca’ d’ Gal e Paolo Saracco restano punti di riferimento imprescindibili per capire un po’ di più circa la presunta o reale longevità dei Moscato (provare per credere), i campioni in gioco quel giorno, estratti dalle vendemmie 2008 e 2007, solo in pochissimi casi hanno lasciato segni di vitalità e ricordo: il Moscato d’Asti 2008 di Pierino Gallina, realmente tonico, e Il Giai 2008 di Armangia- Ignazio Giovine, più severo negli accenti ma non meno coinvolgente. Infine, diverso ma appagante, il Su Reimond 2007 di Valter Bera, a cui il tempo ha regalato intriganti nuances balsamiche e di erbe aromatiche, e la timbrica di un vendemmia tardiva, a unire d’incanto una dolcezza di frutto ben equilibrata alla freschezza acida, questa sì ancora fremente e decisiva.

FERNANDO PARDINI

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