Ristorante Serendepico: c’era una volta una cucina nuova

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… E se i luoghi, appartati e trasognanti, mi hanno fatto lampeggiare il ricordo dell’inarrivabile Auberge Le Pré Bossu di Carl Grotaert, incantato avamposto senza età nel mare verde d’Alvernia (sapete quei luoghi che “succhiano” il tempo, lo rimescolano, e te lo rendono indietro che non è più lui?), la cucina, i gesti e i modi appaiono ben sincronizzati con la contemporaneità, riuscendo a scuotere dal torpore non soltanto l’avventore distratto ma anche il mondo fin troppo sonnacchioso della offerta gastronomica lucchese.

Quel che mi piace, della “dimensione” Serendepico, è che la cesura si va consumando con umiltà e serietà, senza pruriti di protagonismo. Le soluzioni, le  suggestioni e lo slancio creativo di cucina non debordano mai dalla idea primigenia (che non di rado è un classico, di territorio e non) e difficilmente qui si sconfina nella cerebralità e nella esibizione fine a sè stessa, ché i piatti ce la metton tutta per farti carpire l’essenza delle cose e il potere seduttivo dei vari ingredienti che li costituiscono. E tutto questo ben oltre la forma, il disegno o il colore, che pure contano, e che pure non guastano. Così, per una volta, sono stato felice di non trovare solo apparenza e freddo tecnicismo in una cucina creativa. Ho trovato invece conforto nella modulazione dei sapori, nella pulizia esecutiva, nella nettezza gustativa, nei simpatici giochi di contrasto, nell’uso ragionato e convinto delle spezie e delle erbe, nel sapore mai delegittimato di ciò che il menu orgogliosamente recita. E, udite udite, nella DIGERIBILITA’ dei cibi, come difficilmente mi capita di provare nei ristoranti anche blasonati.

Giovani i talenti di questo locale. E intriganti le proposte, che ti verrebbe voglia di provarle tutte. All’obiettivo contribuiscono un servizio gentile e preparato (il patron Alessandro Ciomei e  la giovane maitre Chiara) che ben si destreggia nell’arte dell’accoglienza, e ovviamente le creazioni del giovanissimo chef Damiano Donati, autoctono 24enne con un trascorso -pensa te- già decennale ai fornelli (anche importanti). Quel che resta è la voglia di ritornare. Perché è una cucina piacevole, cangiante (anche nel senso letterale del termine, da ché il menù cambia radicalmente ogni mese o giù di lì), dialettica e stimolante, che sa “toccare” alla bisogna testa e cuore.

E se il Mars di foie gras, albicocche disidratate, insalatina di cavolo cappuccio e liquirizia, omaggio formale ma non sostanziale al celebre snack, rappresenta lo slancio avanguardista, futuribile e scioccante del menu degustazione di quella sera -come a dire che qui con la mente non ci si ferma un attimo-, tutte le altre pietanze riescono a raccontare con dovizia di particolari una idea attualizzata di tipicità (il grazioso alleggerimento delle seppie in zimino, tanto care ai lucchesi e ai versiliesi, la cui veracità si stempera nell’abbraccio dolce della spuma di patate e si impreziosisce di “allunghi” speziati) e di tradizione (la suadenza aromatica e la delizia gustativa dei canederli di pappa al pomodoro su brodo di basilico, ricotta e parmigiano; la bontà senza se e senza ma del maialino da latte su salsa alla carbonara e spinaci saltati), che significano rispetto, senza dubbio, ma anche svecchiamento, ricerca di nuovi equilibri, sfumature, sintesi.

La pasta, nel frattempo, viene onorata da uno spaghettone Benedetto Cavalieri che da solo fa il piatto, qui declinato in un ispirato aglio, olio, peperoncino, zenzero su zuppa di pesce al nero di sapidità tutta “marinara”. Dolci all’insegna di una tecnica che non reprime il sentimento, come nella spugna di mandorle con crema di limone, da mangiare rigorosamente con le mani (e ti sembra di palpare una nuvola che profuma di agrumi e lieviti buoni), nel tiramisù senz’uovo (dove ti conquista la soffice “ariosità” della crema e ti fanno ritornare piccolo l’umidità accondiscendente del savoiardo e l’odore del caffè) o nella crema liquirizia e zafferano, malcelato omaggio alla cucina de Le Calandre di Massimiliano Alajmo, da cui Damiano ha lavorato.

Per il resto, che dire, è un buon vedere: ambiente d’atmosfera, intimo e luminoso, bella apparecchiatura, gusto nella presentazione dei piatti, ottimi pani (da lievito madre), sfiziosi amouse bouche (quella sera un mantecato di baccalà in tempura, foglia di shiso e tamarindo, a ricordarci gli ultimi viaggi in Oriente di Damiano). E se il bicchiere della staffa – un fragolino ruspante e profumato– ti vuol ricordare dove sei, la carta dei vini dai ricarichi corretti, sia pur non troppo vasta, spazia volentieri via dalla pazza folla, suggerendoti una volta ancora che da queste parti alle cose ci si pensa, senza sfiorare le ovvietà. Il Sauvignon Voglar 2008 di Peter Dipoli, per esempio, ha fatto la voce grossa: vino ampio e profondo, immenso e toccante, ha accompagnato di buon grado ogni pietanza senza colpo ferire. Non mi scordo dei prezzi: menù degustazione (6 portate) a 45 euro. Sui 60 alla carta.

Ah, dimenticavo: accanto al Serendepico  – stessa proprietà –  c’è il Relais del Lago, B&B di charme, dove pare che silenzio significhi davvero silenzio.

Ristorante Serendepico
Via della Chiesa,36  – Loc. Gragnano (LU)
Tel. 0583 975026;
info@serendepico.com
www.serendepico.com

Le foto ( escluso chef e crema zafferano e liquirizia) sono di Lido Vannucchi, fotografo vero in quel di Lucca, amico sincero de L’AcquaBuona e confidente intimo dei vini sinceri.

FERNANDO PARDINI

4 COMMENTS

  1. Questo serendepico spunta da tutti i buchi, l’ho notato su facebook, osannato da tanti giornalisti enogastronomi amici, ora qui, a leggere e vedere cosa riesce a fare ci sarebbe da precipitarsi! Non è lontano da Castiglioncello, spero di andarci prestissimo. Grazie Acquabuona, siete sempre una garanzia! Cristina

  2. x Cristina: Accipicchia, ed io illuso a pensar di aver scritto su qualcuno di poco conosciuto! Vuoi dire, Cristina, per restare in tema culinario, che la rece non è che un “premasticato” ?( rubo la simpatica definizione ad un celebre vigneron piemontese, ormai stufo di trovarsi sempre di fronte ad entrée non ben definite negli ingredienti ma immancabilmente aventi forma e consistenza da budino, da qualsiasi parte andasse).
    Boh, non so, ci sono elementi d’attrattiva in quel posto, ché per me – tanto per sposare l’ovvietà – l’esperienza ristorantizia non si esaurisce tutta e sola nei cibi ma è un insieme di cose che spesso ha a che vedere con la sensibilità e il buon senso. E con la predisposizione ad accogliere, ascoltare, incuriosirsi ( e questo non soltanto da parte del ristoratore beninteso, ma anche da parte del “ristorato”).

    Infine, troppo buona per la “garanzia” accordataci,

    Fernando

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