Alludo all’irrefrenabile desiderio di trasformare un’esperienza di degustazione in un articolo, non certo al passare qualche ora in compagnia dei propri amici, talvolta produttori. La giornata non è delle migliori riguardo le condizioni metereologiche, pur tuttavia non piove ed un velo di foschia rende il panorama ben più affascinante. D’altronde il paesaggio delle Langhe, Roero e Monferrato – eletto sito Unesco nel 2014 – ha conseguito questo importante riconoscimento grazie al fascino che ci cela dietro a scenari simili. Mi riferisco ai piccoli borghi, ai castelli e ai ciabòt che giocano a nascondersi, avvolti nella nebbia, tra le colline più famose del Piemonte. Marco ama la lealtà, la chiarezza nei rapporti con le persone. Spesso, anzi quasi sempre, per spiegare alcuni concetti legati al mondo del vino utilizza dei paragoni, delle metafore, perché soltanto facendo chiarezza è possibile raggiungere importanti traguardi. Sono le sue parole.
Marco racconta che un grande vino nasce in vigna ancor prima che in cantina, dunque la parte agronomica e lo staff enotecnico devono godere entrambe della massima fiducia. La squadra dev’essere affiatata, soltanto raggiungendo questo equilibrio è possibile prendere determinate decisioni, correggere ad esempio il tiro di un’annata sfruttando la sensibilità di professionisti quali Dante Scaglione, in azienda dal 2008, e Daniela Serra dal 2023. E’ molto legato a questi due enologi, stima il loro impegno e la capacità di ascoltare ogni punto di vista senza escludere a priori un’idea, un concetto che possa realmente fare la differenza. Parlando di problemi legati alla siccità, all’aumento delle temperature, il nostro protagonista dichiara di osservare con occhio vigile ogni singolo cambiamento avvenuto in vigna, cercando di fare tesoro di ogni esperienza – anche negativa – realmente vissuta. Allo stesso tempo dichiara di non credere che il mondo finirà da qui a breve, nonostante l’uomo debba sensibilmente cambiare marcia rispetto ad alcuni temi legati alla salvaguardia ambientale. Alcune regioni dell’Italia settentrionale stanno affrontando, soprattutto negli ultimi anni, diversi problemi legati alla siccità. Secondo il nostro protagonista devono ingegnarsi, per risolvere in parte la questione, prendendo ad esempio l’espediente della desalinizzazione del mare attuata da terre straordinarie quali Sicilia e Sardegna; cerando dunque di sfruttare al massimo le soluzioni che la stessa natura è in grado di suggerire. Mi sovviene la fitodepurazione che recupera le acque di cantina, il riciclo dell’acqua piovana – come del resto accadeva un tempo – o altre idee frutto dell’ingegno umano.
Seitremenda e Testanvisca sono i due fiori all’occhiello dell’azienda, trattasi di un Alta Langa e di un Nebbiolo d’Alba dedicati ai suoi due figli. Ho avuto modo di assaggiare anche altre etichette della gamma, dunque di seguito troverete il mio punto di vista. Ringrazio il nostro protagonista per l’accoglienza, per gli aneddoti raccontati e soprattutto per le tante risate. Il suo carattere istrionico mi ha colpito, soprattutto il saper passare in tempo zero da un clima “goliardico” al massimo della professionalità e cura del dettaglio; caratteristiche proprie di ogni persona intelligente e talentuosa.
Assemblaggio di uve pinot noir (70%) e chardonnay (30%), affina 36 mesi sui lieviti. Il dosaggio è pari a 3 g/l. Perlage eseguito a regola d’arte, bollicine fini che amplificano una bella tonalità paglierino con riflessi color beige. Al naso è un tripudio di frutta secca, agrume – soprattutto la scorza di cedro – ribes bianco e tanti piccoli fiori di montagna uniti ad una vena incessante di calcare. Bolla voluminosa, croccante, ritrovo buon equilibrio tra tensione acida, sapidità e la polpa del frutto. Lunghissimo, “dissetante”, definirei la sua beva illegale.
Alta Langa 2017 Seitremenda (sboccatura à la volée)
Marco ha intuito la mia passione per gli spumanti metodo classico “affilati”. Intendo tutti quei prodotti con zero, o pochissimo, dosaggio di zuccheri aggiunti (post sboccatura), in cui la freschezza è sempre in piano coadiuvata da una buona struttura e persistenza; non le limonate per intenderci. Decide dunque di portare alla nostra attenzione il suo Alta Langa 2017 con sboccatura à la volée, dunque per l’appunto senza zuccheri aggiunti. La trama cromatica questa volta ammicca all’oro antico su uno sfondo paglierino vivace, amplificato altresì da un perlage fine. Respiro intenso, un’esplosione di aromi di pasticceria: crème brûlée, agrume candito e liquirizia; liberata un po’ di carbonica in eccedenza sbuffi mentolati su pietra polverizzata e smalto. Ne assaggio un sorso e ritrovo tutto ciò che amo negli Alta Langa eseguiti a regola d’arte: freschezza citrina, corrispondenza in termini di mineralità, tanto sale e un allungo che fa pensare a “certi cugini” che abbiamo Oltralpe; anche se fare paragoni in questo caso ha ben poco senso perché gli spumanti di Marco hanno un’identità propria.
Vinificazione e affinamento svolti esclusivamente in acciaio. Paglierino chiaro, luminoso. Svariate erbe aromatiche, tra cui timo e santoreggia, susina gialla e pompelmo in cima ad ogni ricordo legato al frutto; quest’ultimo appare nitido, vivo, anticipa una netta mineralità che nei vini di Marco Capra funge da minimo comune denominatore. La ritrovo anche al palato grazie ad una lunga scia sapida e una freschezza mai in secondo piano. Gran bel vino.
Vinificazione e affinamento svolti per un terzo della massa in legno, 2/3 in acciaio. Tra il rubino e il porpora, media trasparenza ed estratto. Ho apprezzato particolarmente la fusione tra il frutto maturo che sa di amarena, le note boschive – e in parte balsamiche – unite a pennellate floreali che prendono il sopravvento soprattutto in chiusura; dunque terriccio umido, eucalipto e rosa rossa. Gran bella progressione incentrata sull’acidità, e coerenza rispetto a quanto riscontrato al naso; tanto sale e una chiusura ammandorlata che invoglia il secondo, terzo sorso e così via.
Affinamento in botti di rovere di media capacità per circa un anno. Rubino con riflessi porpora, si muove lentamente all’interno del calice. Il frutto è un po’ più maturo rispetto al vino precedente, risulta goloso, pare quasi di morderlo: amarena, prugna, toni erbacei – in parte derivati dalle erbe aromatiche e in parte dal pepe verde – la chiusura è a favore della parte minerale e del sottobosco. Un vino indubbiamente robusto, ricco di estratto e polpa; in nessun modo esasperato, pur tuttavia il finale, almeno in questa fase, evidenzia una sensazione di alcol percepito leggermente sopra le righe. Il tempo saprà indubbiamente diluire questo aspetto perché la freschezza non manca, tantomeno la sapidità.
Affina in grandi botti di rovere austriaco dove avviene la fermentazione malolattica, e nelle quali sosta per 12-15 mesi prima di essere nuovamente assemblato in vasche d’acciaio. Tutta la classe del Roero sin dal colore, ovvero una bella trama granato chiaro, con unghia mattone, di buona trasparenza. Lo avvicino al naso e ritrovo gran parte delle peculiarità che caratterizzano il nebbiolo allevato sulle sabbie d’origine marina, unite ad una buona dose di argilla e calcare. La parte fruttata richiama a gran voce il ribes rosso e la ciliegia matura, a tratti financo la fragolina di bosco e qualche frutto estivo (pesca nettarina); ma anche il tamarindo e la violetta. Con lenta ossigenazione spezie orientali, grafite e un curioso accento d’incenso. In bocca la tempra di questo vino è sorprendente, scherzando con Marco l’abbiamo definito ai limiti del salato; il tannino è percettibile e al contempo dolce, una carezza che non passa in sordina insomma. Lo riassaggio e questa volta vengo travolto da un’ondata di freschezza, la stessa che mostra tutto il potenziale del Roero e del talento del nostro protagonista. La beva ad un tratto diviene quasi compulsiva, non penso serva aggiungere altro se non: ”Bravo Marco!”.
Le foto sono di Danila Atzeni