di Aurora Tosi
Ettore diresse più volte lo sguardo al paese di Levigliani, con tanta attenzione come se dovesse decifrare un qualche segnale proveniente da quella direzione. Meditabondo, addentò un grosso morso di pane bianco e morbido. La polvere della farina rimaneva attaccata alle mani. Stese la palma destra verso il cielo, poi quella sinistra e rimase stupefatto. Non era neppure un anno che lavorava in cava e già le sue mani si erano fatte ruvide e callose come quelle di Beppe, che era lì da trent’anni. Pensò a Livia e alle sue palme bianche e lisce, alle sue guance rosee. Guardò nuovamente verso la valle, poi riprese a staccare piccoli morsi dal grosso pane fragrante. Mentre masticava sentì la voce cantilenante della moglie che sorridendo cantava una melodia dolce e mesta; sulla spianata di marmo le sue mani si immersero nella montagnola di farina e di levame, dove cadde dapprima una nevicata di sale, poi una lenta pioggia calda d’estate. Mentre ella cantava, come se il canto guidasse le mani nel dar vita a una nuova creatura, la primordiale argilla prendeva forma e una pagnotta tonda e paffuta si scaldava al fuoco del forno odoroso di castagno e pino. Il grembiale in vita, le mani impastate e soddisfatte, il viso accaldato e un fazzoletto a tenerle i capelli, presso il forno ancora cantava. Sotto la veste portava orgogliosa il proprio bambino. Com’era bella! Non era mai stata bella come allora!
Livia era sempre stata una ragazza molto carina, occhi grandi e sinceri, capelli castani stretti in una lunga treccia ondeggiante, denti bianchissimi, passo fermo eppure aggraziato. Quando Ettore la spiava al lavatoio, mentre conversava con le amiche, aveva sempre pensato che fosse lei la più bella, ma da quando era incinta era diventata stupenda. Ettore era fiero della sua splendida moglie! Il profumo di quel pane gli ricordava il suo sorriso e lo pervadeva la certezza che ella avesse preparato quel pranzo con tutto il suo amore. Trangugiò un altro bel pezzo di pane e una fetta di lardo bianchissimo, appena venato di rosa, annaffiando il tutto con un sorso generoso dal fiasco rotondo e panciuto. Ora sorrideva anche Ettore; quella povera mensa condivisa con il vento e con la terra, lo aveva riconciliato con se stesso e con il mondo.
Improvvisamente lo attraversò il pensiero che anche i cavatori erano come i granelli di farina di quel pane bianco di Livia, il candido marmo il loro lievito per poter diventare pane. Sentì il calore del sole come un fuoco in cui cuocere lentamente e dorarsi e rendersi croccanti e farsi nutrimento per le labbra rosse e i denti candidi dei loro figli. Le briciole alla terra, un indissolubile destino con la montagna rabbiosa eppure impotente. Posizionarono le mine. La buccina risuonò nell’aria, vibrante. La montagna barcollò sotto di loro e un boato squarciò il silenzio, propagandosi per la vallata ai loro piedi. Si alzò un’enorme colonna di fumo biancastro e un coro stonato di tossi e brontolii. Livia una volta, al suo rientro da una giornata in cava, gli aveva confessato di come ella ogni volta che udiva il rimbombare cupo di una mina si stringesse forte le mani al petto e, fremendo, rimanesse in silenziosa dolente attesa per interminabili istanti, nel terrore che il malinconico richiamo della buccina suonasse ancora, stavolta per annunciare morte. Quel giorno dovette fremere più del solito, perché appena la nuvola di polvere si fu innalzata verso il cielo, liberando la visuale, Ettore scorse un piccolo gruppo di compagni accorrere sul piazzale, gridando qualcosa con agitazione. La buccina innalzò nuovamente il suo lugubre lamento e tutti si ritrovarono sul piazzale di cava a guardarsi sgomenti, i grigi cappellacci polverosi in mano, muti. Mario annunciava sventura. Uno degli uomini che stavano portando a valle, lungo la via di lizza, un blocco estratto in mattinata, era svenuto a causa della stanchezza e del sole accecante, lasciando la presa sui cavi che tenevano il masso. Il blocco era partito, travolgendo Nino, che allora si trovava davanti a posizionare i pali su cui far scivolare il blocco. Dal gruppo avanzò Aldo, imprecando contro quello stramaledetto lavoro che li stava uccidendo tutti. Altri gridarono, un fermento attraversò le file dei cavatori, una rabbia accompagnata da una violenta sete di ribellione. Antonio sbraitò che lassù era meglio non rimetter più piede.
Quando giunsero a Levigliani era notte e le vie erano silenziose. C’era la luna nuova che faceva capolino da dietro la Pania. Ettore aprì lentamente la vecchia porta di castagno, che cigolò rivelatrice sui cardini. In cucina, il capo reclinato di lato sul petto, c’era Livia che dormiva, tra le mani un fazzoletto umido di lacrime. Aveva atteso il suo ritorno, ma il sonno infine l’aveva vinta. Sulla mensola la candela si era consumata. Nella cucina c’era un buon odore; sul tavolo, sotto un panno a quadri una pagnotta ancora tiepida aspettava soltanto di essere addentata.
Immagini: L’isola di Capraia (www.borghitoscani.com), Levigliani e il Corchia (digilander.libero.it/sergiocecchi), blocchi di marmo (www.barsimarmi.com)
Ha veramente un bel sapore epico, questo delizioso racconto tragico. E so bene che “delizioso” stride e confligge nell’accostamento a “tragico”. E’ la nostra epica apuana, un’epica che è solo memoria ormai che si fa tradizione. Non è poco. Non è poco che si tramandi di generazione in generazione quel gusto così salato, fatto di sangue, lucore e farina, di “quel” pane. Toccante la metafora marmo/pane che ulteriormente si trasforma nell’intuizione del titolo. Non è poco che una “vecchia” storia si rinnovi così bene (rapida intensa e lieve) nel racconto di Aurora, che veramente dimostra così d’essere “dalle dita di rosa, figlia del mattino”…A lei si addicono le parole di Erri de Luca: <E’ bello vedere qualcuno che dondola davanti a una parete come una canna, al vento dei propri antenati >. Ora, poiché la Soria (quella con la maiuscola) coltiva delle strane lacune…e con opportunismo cinico si modifica… sarà bene che ancora si racconti del sibilo lungo della buccina sul ghiaione accecante degli ormai deserti ravaneti.
Grazie davvero per queste bellissime osservazioni. Sono lieta di essere considerata all’altezza dei versi di Omero e delle parole di Erri de Luca, anche se non ritengo di meritarmi tanto.
Francesco, ma ti trovo pure qui !?!?
tutti gli altri perdonino
alfonso
Ebbene sì!
Francesco