Vieni a mangiare con noi, ci manca il verme
Con simile fiducia acritica da qualche anno a questa parte in tutt’Italia, dal Brennero a Lampedusa, si è andata affermando, quasi come regola alimentare, l’icona del Sushi. Minimal, elegante e lucido, dominante il bianco (del riso) con bagliori color vinaccia (tonno) e arancione (salmone) o altrimenti dai riflessi argento-cromati, ricalca in tutto e per tutto il design di un prodotto di Steve Jobs. E, come il gran sacerdote della mela morsicata, è ammantato di un’aura di ascetico, suggerendo un’idea di sano, pulito, essenziale che rassicura. Sa anche (ma vagamente) di oceano, anzi ne incarna proprio l’essenza, perché così crudo e incontaminato il sushi è la sostanza stessa del mare.
Nessuno, nemmeno un formaggiaio di malga, può resistergli. Perché in qualche modo il mangiare crudo (pesce ma anche carne) fa sentire sani. Con un colpo solo ci libera dalle fritture, dai grassi, dalle lunghe cotture e dagli intingoli. Tanto da sembrare un modo di alimentarsi a impatto zero. Zero cottura e quindi zero emissioni di CO2, quasi zero anche lo sversamento di detersivi negli acquai. Insomma una via quasi mistica, zen, essenziale che mette in pace con la coscienza. L’unico prezzo da pagare tutt’al più è quello della perdita del senso della misura (e spesso anche del ridicolo) quando ci si raduna, mondani, all’inaugurazione di un sushi-bar tra le vigne del Monferrato o si ordina una tartare di tonno profumata agli agrumi a Gressoney.
Se ci si aggiunge il proliferare dei programmi di cucina, e la conseguente involuzione in starlette televisive dei più grandi Chef italiani capaci di convincere anche una massaia della Val di Non che crudo è sano, è chic e soprattutto facile, si può capire perché accanto alle (riscoperte) intossicazioni tradizionali, gastroenteriti e affini, causate da pesce contaminato, non fresco o mal conservato, oggi il nuovo spauracchio ha le fattezze inquietanti e l’inafferrabilità di un piccolo vermetto bianco.
Per essere precisi un nematode, l’anisakis, ostinato inquilino di visceri e carni di una buona percentuale del pesce che arriva sui mercati del nostro paese. E non solo del nostro ovviamente. Se però in Giappone, dove il consumo di pesce crudo anche casalingo è molto superiore che da noi e i casi di infestazione umana sono intorno ai diecimila l’anno, l’attenzione al fenomeno è capillare, in Italia la conoscenza e la percezione del rischio sono ancora quasi azzerate. Per fortuna le larve, molto frequenti nel pesce, non necessariamente, una volta ingerite, provocano la parassitosi nell’uomo. Sia perché non resistono alla doppia migrazione (pesce-uomo) in un breve arco di tempo (di solito qualche mese) ma anche perché la gran parte non sopravvive all’acido cloridrico dello stomaco umano e viene semplicemente … digerita.
È bene chiarire che un pesce infestato dall’anisakis non è affatto da buttare, non perde nessuna delle sue proprietà nutrizionali e caratteristiche organolettiche. Per cui è sufficiente cuocerlo per non correre nessunissimo rischio dato che le larve muoiono ad una temperatura superiore ai 50 gradi (anche l’affumicatura purché non effettuata a freddo è sicura). Nessun rischio anche con pesci sottosale (acciughe, baccalà) purché la salatura sia stata effettuata con alte concentrazioni di sale e per almeno 30 giorni.
È invece assolutamente inefficace la marinatura in limone o aceto e dunque per preparazioni come le acciughe alla povera sarebbe necessario per legge il congelamento preventivo. Il crudo invece (carpacci, tartare, finger-food) è certamente il modo più rischioso per consumare pesci che possono essere infestati dall’anisakis (tra i più comuni e più consumati alle nostre latitudini aringhe, sgombri, pesce sciabola, merluzzi, acciughe, sardine, triglie e tutti i tonnidi) anche se, con una certa accortezza e usando solo pesce appena pescato, i rischi possono essere quasi azzerati.
Infatti è solo alla morte del primo ospite (pesce, alimento di altri pesci o dell’uomo) che le larve migrano dall’intestino (in rapida putrefazione) alla cavità peritoneale e poi verso i tessuti edibili dall’uomo. L’eviscerazione del pesce nell’arco di poche ore dalla morte impedisce che il verme migri e l’eliminazione delle parti dell’addome direttamente a contatto con la cavità viscerale abbatte quasi del tutto il rischio. Inoltre l’ispezione visiva delle carni, specie se si tratta di quelle scure di pesce azzurro o tonnidi, permette di individuare eventuali larve che sono in genere lunghe dai due ai tre centimetri e quindi visibili ad occhio nudo. Per essere davvero sicuri però è ancora l’abbattimento a meno venti gradi per almeno 24 ore dei filetti puliti che garantisce la morte delle larve. Per fortuna le uova non possono determinare alcuna patologia nell’uomo anche se è stato verificato che l’ingestione di pesce cotto, contenente larve morte, possa provocare allergia (risposta specifica IgE) e nel 10 % dei casi dermatiti e orticaria.
La parassitosi vera è propria è però molto più seria e si classificata in due quadri clinici principali a seconda del tratto dell’apparato digerente in cui si incistano le larve. Nella forma gastrica (parassiti nella parete dello stomaco) la sintomatologia è quella di una gastrite o di un’ulcera, nausea, vomito, dolori addominali che insorgono 1 – 12 ore dopo il consumo. Nell’intestino le larve producono una sostanza che attrae globuli bianchi eosinofili, causando la formazione di un granuloma attorno al verme nel tessuto. Dopo 7 giorni i sintomi possono essere analoghi a quelli di un’occlusione intestinale e l’intervento di rimozione è esclusivamente microchirurgico.
Certo non è la nuova peste e non si rischia nessuna pandemia ma forse non vale la pena rischiare per fare bella figura con gli amici.