Malvasia 2011 – Zidarich. Macerarsi sui macerati

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Il vino: Venezia Giulia IGT Malvasia 2011  – Zidarich

Zona di provenienza/sottozona/cru: Località Prepotto, Diano-Aurisina (Trieste), Carso

Vitigni: malvasia istriana

Data assaggio: maggio 2014

Il commento:

Zidarich_malvasia_bottNo, il colore non è arancione, se questo può sollevare i perplessi dalle perplessità; casomai un giallo oro antico, denso e brillante, solo leggermente velato. Che ti annuncia un naso caldo, comunicativo, suadente, di cui ne apprezzerai fin da subito la sensazione dolce, “mediterranea”, come di frutta matura leggermente disidratata, ad acquisire i contorni netti dell’albicocca e della nespola, in grado però di arricchirsi di preziose sfumature: di orzo e di miele, certo, ma soprattutto del tripudio di erbe aromatiche e della speziatura naturale che sono poi la quintessenza della malvasia di sponda istriana.

E se l’annata in gioco, sostanzialmente calda, non è di quelle ottimali per esaltare il ricamo di un disegno o la dinamica di un sorso, a questa ispirata Malvasia di Beniamino Zidarich non manca il colpo d’ala, un colpo d’ala che si fonda sulla assoluta riconoscibilità di vitigno e territorio senza che resti prigioniera di un cliché produttivo, proponendosi cangiante e stimolante via via che prende aria, tanto più da quando la temperatura di assaggio si avvicinerà ai 16 gradi, ottimale per comprenderne i pertugi più nascosti.

Ma è la cremosa masticabilità di questo vino – che a tre anni dalla vendemmia ti apparirà ancora integro e vitale, senza inutili derive ossidative- a svelarti la fibra bucciosa e saporita dell’uva e a sorprenderti per quanto sappia mantenersi a debita distanza da una eccessiva rilassatezza. Corroborato come si ritrova dalla spinta salina di quelle terre rosse spazzate dal vento, nei suoi richiami salmastri è in grado di fotografare in modo accecante la diversità di una terra tanto estrema quanto caratterizzante, e realizzare il miracolo di una beva istintiva, ciò che misuri nei pochi attimi di vita di una bottiglia annientata senza batter ciglio nel giro di un rapido valzer di bicchieri.

E’ un vino della terra per la terra, questo è, ispirato portatore di sogni allegri.

La chiosa:

Torno a scrivere di “macerati” (sciogliamo subito i dubbi per i neofiti e i distratti: non ci riferiamo qui a persone insicure o affette da mancanza di autostima), un argomento lasciato volutamente decantare (macerare?) nei meandri complicati delle mie (in)consapevolezze. Non perché non li abbia più frequentati, i “macerati”, ma perché per tentare un ragionamento che puntasse a una specie di approdo il tempo ha chiesto la sua parte, legittimamente. Il tempo ha chiesto tempo.

Troppa d’altronde la subitanea ammirazione per la (ri)scoperta, per quel ritorno all’antico che ammiccava, e in parte ancora ammicca, al futuro. Inevitabile l’infatuazione, non esente da piccoli peccati di cerebralità, per un percorso tanto audace quanto foriero di potenziali meraviglie. Accompagnato perdipiù dall’onda montante della naturalità, del rispetto per l’ambiente, dell’ecosostenibilità: quanto di più pressante chiedono oggi la nostra terra e la nostra agricoltura. Succedeva una quindicina di anni fa, quando un piccolissimo stuolo di “vignaioli pensanti”, non di rado provenienti dal Friuli, provava a comunicare al mondo certe speciali esperienze condotte sui vini bianchi, tramutatisi là per là in qualche cosa di diverso, di altrettanto liquido ma di stranamente colorato, a metà strada fra un bianco e un rosso, diciamo “orange”, aprendosi a un mondo di profumi e di sapori per quei tempi desueti o deliberatamente messi al bando. Una strada che si apriva, una sperimentazione che aveva inizio e che avrebbe fatto i suoi bravi proseliti: la macerazione sulle bucce per le uve a bacca bianca! Da nord a sud della penisola una sempre meno residuale minoranza di viticoltori si cimentava con il metodo nuovo, che era poi come ritornare alle origini. E insieme al metodo ritrovava il significato più profondo di lavorare con i lieviti indigeni, di fare a meno delle filtrazioni, di sperimentare vasi vinari differenti, di esplorare eventuali vocazioni “da maratoneta” nei bianchi così ridisegnati, lasciando più libero e meno obbligato il percorso dell’uva nella trasformazione in vino.

Però, come per ogni buon metodo enologico che si rispetti, ci vuole tempo per affermarne l’eventuale efficacia, o la generalizzata efficacia. Ché poi non confondiamoci: giochiamo a far le pulci ai vini, a vivisezionarli con ragionamenti finanche arguti che ci riconducano alle ragioni di un terroir o agli intendimenti stilistici di un produttore, ma qui il coraggio di una scelta “via dalla pazza folla” si alimenta di altri valori, che sono soprattutto etici. Non tanto e non solo il recupero di metodi antichi per dimostrarne la valenza attuale dal punto di vista organolettico e culturale, ma fondamentalmente un modo diverso di vivere la campagna e di rispettare la terra. Senza più filtri, né dentro né fuori, a riflettere nel solco profondo di una ricerca  più spinta di naturalità una scelta di vita forte e interiorizzata, a volte radicale, che a ben vedere potrebbe significare tirarsi fuori dall’agone, non mischiarsi e non scendere a compromessi. Quindi porre in secondo o terzo piano alcuni aspetti per così dire fenomenologici dell’universo vino, come una sua classificazione basata sulla benedetta qualità percepita. Ecco, se guardiamo alla sostanza delle cose, in primis esiste il gesto agricolo (ma anche quello enologico) purificato dalla chimica. E’ ciò che marca la differenza. Quindi confondere vini figli di una enologia pulita con vini “di compromesso” (a detta di legge altrettanto legittimi, ci mancherebbe) non è praticabile. Così ti ammonirebbe il “vignaiolo pensante”, che si fa pure vignaiolo critico. Sono due ambiti diversi e in quanto tali non confrontabili. Così si straccerebbe la questione e i solchi praticati dalle due strade resterebbero profondi ma paralleli, senza possibilità alcuna di ricongiungimento.

Io invece al tema della “identità sensoriale”, tanto per fare un esempio, non ci rinuncio. Mi sta troppo a cuore. Perché penso che anche in questi ambiti “purificati”  sia legittimo misurare le differenze. E chiedersi così se oggi abbia un senso sacrificare dettagli preziosi nel nome di un metodo, quale quello di trasformare la proverbiale freschezza di un bianco (vero e proprio passepartout per la piacevolezza) in qualcosa che vada nel verso di ciò che si vorrebbe evitare come la peste: l’omologazione del gusto. Creare, sia pur nella diversità dei modi e dei gesti, un altro “ordine di omologazione”, irreggimentato e riproponibile come un autentico cliché. Beh, si tratterebbe di un errore dello spirito, ancor più che strategico!

Quindici anni di assaggi reiterati -tanti- sui vini macerati hanno partorito sentimenti contrastanti: d’affetto certo, e di immedesimazione, ma anche di disaffezione e di noia. E se c’è una cosa che non saprei dimostrare con “i calcoli” ma che l’esperienza dell’ascolto ha palesato sempre più è che questi metodi, più di altri, riescono a mettere a nudo in maniera definitiva le potenzialità di un terroir e di una annata. Indi per cui l’eventuale debolezza di un terroir viene qui esaltata. Quando perciò a difendere le insegne hai dalla tua parte un territorio tipo il Carso, il discorso prende un’altra piega. Ed ecco che la provvidenziale messa a punto del “metodo” diventa allora un mezzo efficace (non il fine) per traghettare il vino verso approdi di compiutezza. Una compiutezza magari diversa, che sposa un linguaggio altro se vuoi, ma che significa pur sempre COMPIUTEZZA, tipica di un orizzonte organolettico a suo modo concretizzatosi. E così l’affresco aromatico non si comprimerà più nell’indistinguibile universo ossidativo in odor di tisane e iodosan, ma sarà in grado di risaltare in maniera accecante la dolcezza naturale del frutto, e comprenderne le cento differenze fra varietà e varietà. E il potenziale delle erbe aromatiche di una Malvasia potrà essere esplorato con dovizia di particolari, con la fibra dell’uva bellamente messa a nudo -che sembra quasi di masticarla- e la sensazione salmastra figlia di quelle coste ventose felicemente svelata, senza che resti impigliata in velleitarie derive tanniche, che calzate addosso ad un vino bianco sostanzialmente striderebbero.

Perché se il tutto dovesse tradursi in una sintassi obbligata fatta di profumi ossidativi suppergiù uguali da nord a sud della penisola (quale vitigno? quale provenienza?) e da una impronta tannica spesso prevaricatrice, significa che ciò che ho davanti altri non è se non un risultato a metà. Né più né meno che un vino prigioniero della morsa asfissiante del rovere piccolo e nuovo, con i tannini inoffensivi, la melliflua morbidezza, la trazione invariabilmente anteriore, l’aromaticità veicolata dalle vaniglie e dalle tostature che mal digerirà per tutta la vita….

Ecco, è in quel traguardo sensoriale “realizzato”, di piacevole compiutezza, che mi sento a mio agio. E’ in compagnia di certi vini, e solo di quelli, che mi riapproprio della immedesimazione dei tempi migliori e il tutto riacquista una proporzione e una misura. Certo, una sensibilità interpretativa quale quella di Beniamino Zidarich è cosa rara e da tenere in serbo. Non è però il solo interprete di questa tipologia a muoversi su quel versante, e a muovercisi bene. Per fortuna. Tenuto conto che dalle scorciatoie stilistiche non è esente manco il piccolo mare magnum dei vini cosiddetti naturali.

E se qualcuno mi chiede -me lo hanno già chiesto- cos’io pensi di tutta questa storia, ho in serbo una risposta -la stessa di sempre- che se non altro garantisce l’ingenuità della rivelazione fanciullesca, e cioè che se per una volta, nella vita o nella storia, l’imprenditore agricolo (e uso non a caso il termine tutto men che poetico di imprenditore) intravvede nelle pratiche agronomiche più pulite il miraggio di un nuovo business, ben venga l’aspetto affaristico della questione, quando ciò serva a convertire sensibilità altrimenti inconvertibili! Sarebbe pur sempre un cambiamento epocale, tanto più quanto più a largo raggio praticato e accolto; ciò che giocherà a favor di terra e di futuro. A ben vedere, l’unica circostanza pensando alla quale i futuri abitanti di questo pianeta, consci delle sconcezze perpetrate all’ambiente dalle generazioni presenti e passate, potrebbero perfino concederci il compassionevole gesto di un timido grazie.

Foto: vigne di Zidarich fra terra e mare; scorcio della cantina interrata

Altre suggestioni: leggi qui  il pezzo scritto qualche tempo fa dal nostro Leonardo Mazzanti

FERNANDO PARDINI

2 COMMENTS

  1. Ottimo intervento con ottimo tempismo. Personalmente troppe posizioni a favore a prescindere dal vino.

  2. Ciao Giorgio
    io distinguo due aspetti, e forse s’è capito: quello relativo al rispetto per l’ambiente e alla esigenza di una viticoltura ( ed enologia) più pulita, che ritengo cumsustanziale con il futuro stesso della terra; l’altro legato ai risultati nel bicchiere, che ci sono, e sono assai diversi, a seconda del vino, del territorio e del produttore. Checcheneddica la “benedizione” della macerazione sulle bucce. Per cui son d’accordo con te: dal vino non prescindiamo, ma diciamo pane al pane e vino al vino. La macerazione è un metodo, non la panacea.

    ciao
    fernando

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