LUCCA – Terzo appuntamento del progetto dedicato alle cantine della provincia di Lucca, una serie di cene organizzate dal dinamico Andrea Maggi nella sua Locanda Vigna Ilaria a Sant’Alessio (alle porte del capoluogo) che coinvolgeranno, secondo un calendario in divenire, tutte le realtà vitivinicole esistenti sul territorio senza esclusioni o preferenze di sorta. Dunque una bella panoramica di quanto viene prodotto in zona, un’ottima occasione per gli appassionati del settore per approfondire le proprie conoscenze passando dai più piccoli o giovani produttori, all’azienda più blasonata.
Anche i produttori stessi potranno beneficiare di tali appuntamenti poiché, oltre alla visibilità sul sito dedicato al progetto (qui), avranno a disposizione un “tavolo tecnico” – opportunamente preparato in una saletta a parte – costituito da giornalisti ed operatori del settore dove prenderà vita un confronto sincero tra le parti per un’analisi diretta dei vini presentati.
A rinfrancare lo stomaco ci ha pensato lo chef Maurizio Marsili, il quale ha puntualmente confermato (come sempre) le aspettative culinarie: mi domando se riuscirò mai a beccarlo in fallo su qualche preparazione…
Ma veniamo alla presentazione di questa giovanissima azienda emergente: il nome Calafata, intriso di significati non così comprensibili nell’immediato, è stato scelto facendo riferimento ai calafati, coloro i quali sporcandosi le mani, come nel lavoro della terra, impermeabilizzavano le barche con la pece per essere pronte ad una lunga navigazione, così come questo progetto nella vita. E’ una Cooperativa agricola sociale di tipo B che nasce dall’idea di un gruppo di ragazzi e dalla Caritas di Lucca. Infatti la Cooperativa, prima in Toscana di questo tipo, è finalizzata al recupero di persone con problemi certificati (salute mentale, sert, profughi politici, ecc.) tramite il lavoro nei campi per la produzione di vino, olio, miele ed ortaggi.
Tale nobiltà d’intento ha trovato terreno fertile – è proprio il caso di dirlo – nelle colline lucchesi riuscendo ad ottenere in comodato gratuito da alcuni proprietari degli appezzamenti – vitati, con olivi o semplicemente agricoli – che erano in stato di abbandono o quasi. Una circostanza abbastanza frequente oggigiorno dove la cultura contadina è andata scomparendo. Inoltre, specialmente nel caso del vino, produttori ed enologi di livello come Saverio Petrilli (Tenuta di Valgiano), Gabriele Da Prato (Podere Concori) e Giuseppe Ferrua (Fabbrica di San Martino), si sono prodigati nell’insegnare il “mestiere”, seguendo la filosofia della biodinamica, ad un manipolo di persone completamente ignare di vinificazione e conduzione delle viti. I ragazzi non si sono persi d’animo, si sono rimboccati le maniche e sfruttando gli impianti di quella che fu l’azienda agricola del Secco, dopo soli tre anni sono giunti a proporre ben tre etichette.
Sulle etichette appunto si è sollevata qualche perplessità: realizzate dal noto grafico italiano Maurizio Santucci, in arte Bombo, sono indubbiamente belle e particolari ma forse un po’ contrastanti con lo spirito della Cooperativa per la grafica ammiccante allo stile anni ’20 – ’30 del secolo scorso, un periodo non particolarmente “sociale”…
Partiamo con l’unico bianco prodotto, il Levato di Gronda 2014: l’uvaggio è composto da vermentino in buona parte con il contributo di trebbiano, malvasia e moscato. Si presenta giallo paglierino dai riflessi verdognoli, naso floreale, specialmente ginestra, fruttato di susina gialla e ricordi vegetali di erba e salvia. Non manca una leggera speziatura come d’incenso. In bocca è asciutto, sapido, corrispondente e mediamente intenso/aromatico. I 12° alcolici sono contenuti in un corpo non così esile come farebbero pensare. Equilibrato, abbastanza persistente, sul finale evidenzia un’acidità citrina che invoglia la beva. Sullo scaffale a 9,50 euro. Interessante anche il campione da vasca, prelevato la mattina e a differenza del precedente non filtrato, rivelatosi più austero e strutturato ma, a mio avviso e con tutte le considerazioni del fatto che era un campione da vasca, meno preferito allo stesso filtrato.
Come antipasti ci sono stati serviti una vellutata di fave – preparata sfruttando anche il baccello, veramente vellutata e saporita, capace di entusiasmare anche chi non ama le verdure – e una patata al cartoccio con cipolle e trota marinata ed affumicata: piatto semplice e complesso al contempo. La trota, in particolare, proveniva da un allevamento della Garfagnana con acqua talmente pulita e fredda che non vi è possibile allevare altre specie a causa della temperatura troppo bassa se non le pregiate trote fario ed iridee. Per la preparazione del piatto è stata scelta una trota iridea di grossa pezzatura per permettere una marinatura non troppo “cuocente”, mentre per la delicata affumicatura sono stati usati prevalentemente rametti di alloro. L’insieme è risultato armonico e gustoso.
A seguire abbiamo assaggiato il Levato di Majulina 2012, un rosso proveniente da vigne vecchie almeno di cinquant’anni con alcuni filari addirittura pre-fillossera! L’uvagggio è un vero pot pourri di uve della zona – sangiovese, canaiolo, ciliegiolo, aleatico, buonamico e altri vitigni autoctoni – ed è la seconda annata prodotta. La vinificazione in acciaio e cemento è volta ad esprimere al meglio i sentori primari, la mora e la ciliegia si stagliano sulle note vegetali di erbette aromatiche e spunti balsamici. Il naso risulta elegante sebbene la prima bottiglia, più che la seconda, abbia manifestato una certa consistenza olfattiva “polverosa” da ricordare il talco. In bocca è corrispondente, morbido e dai tannini dolci; il vino nella prima bottiglia appare leggermente statico, diciamo che non brilla per dinamismo, mentre nella seconda, dotato di un’acidità più spiccata sul finale, risulta più incalzante. Nel complesso è un vino equilibrato, con un corpo snello dalla struttura elegante che veste bene i 13 gradi, ideale per tanti abbinamenti culinari, da primi saporiti a secondi non troppo carichi o elaborati. Sullo scaffale a circa 11 euro.
Dalla cucina sono arrivati dei ravioli ripieni di ricotta del pastore, conditi con burro di Normandia e tartufo bianco locale. Dico solo questo: in diversi hanno fatto il bis!
Infine è stato presentato il Levato di Redola 2012, un vino dal taglio moderno, sebbene non particolarmente corposo, con 70 % di sangiovese e resto merlot, cabernet sauvignon e syrah. Al naso si apre sui caratteristici sentori di straccio bagnato del sangiovese ma, lasciatolo respirare un po’, emerge una bella nota ciliegiosa. Più tenui la speziatura e un ricordo balsamico di anice. In bocca si conferma: buona l’acidità e la trama tannica; di media intensità chiude leggermente amaro. Con i suoi 13 gradi si presta principalmente all’abbinamento coi secondi piatti purché non troppo grassi.
Come secondo abbiamo ricevuto un “mosaico” di coniglio in umido con polentina leggera su fondo fatto con fianchi ed ossa, ogni parte è stata cotta separatamente: coscio preparato sottovuoto in olio cottura; spalle in sottovuoto; crostino con fegatini, polmone e cuore cotti in termo dinamica così come le costolette. Le cotture ricercate hanno esaltato appieno la qualità dell’animale regalando un piatto sia saporito che leggero.
A chiusura un dolce (molto dolce) vintage a cui Maurizio è affezionato particolarmente: gelato con frutta caramellata al momento, un classico sempre apprezzato.
Tornando ai vini devo dire che il progetto “Territorio da bere” ha centrato l’obiettivo, ha permesso ai presenti di approfondire la conoscenza di una piccola realtà vicina per tanti semi sconosciuta. A Calafata posso fare i complimenti per la qualità dei vini raggiunti in così poco tempo e un ringraziamento particolare per il lavoro svolto come cooperativa sociale.
Premetto, tanto per non essere frainteso, di non essere affatto un nostalgico o comunque politicamente destrorso. Trovo incomprensibile la critica alla grafica alle etichette in quanto di stile che richiama gli anni 20. Lo stile allora era quello anche in ogni altra parte del mondo, compresi i paesi democratici. Mi sembra francamente una critica priva di senso.
Angelo, in senso assoluto probabilmente hai ragione anche se lo stile non era uguale in tutto il mondo e lascio a chi ha competenze artistiche fare le dovute riflessioni su quanti stili ci fossero in quel periodo. Il fatto che però qualcosa richiami ad un certo periodo che viveva di una ideologia contrastante con il pensiero alla base di questa cooperativa permettimelo. Tra l’altro la mia impressione è stata condivisa anche da altri presenti alla cena e quindi probabilmente non è così priva di senso.
Al di là di questo e da ogni riflesso politico le ho trovate comunque belle e particolari.
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Premetto, tanto per non essere frainteso, di non essere affatto un nostalgico o comunque politicamente destrorso. Trovo incomprensibile la critica alla grafica alle etichette in quanto di stile che richiama gli anni 20. Lo stile allora era quello anche in ogni altra parte del mondo, compresi i paesi democratici. Mi sembra francamente una critica priva di senso.
Angelo, in senso assoluto probabilmente hai ragione anche se lo stile non era uguale in tutto il mondo e lascio a chi ha competenze artistiche fare le dovute riflessioni su quanti stili ci fossero in quel periodo. Il fatto che però qualcosa richiami ad un certo periodo che viveva di una ideologia contrastante con il pensiero alla base di questa cooperativa permettimelo. Tra l’altro la mia impressione è stata condivisa anche da altri presenti alla cena e quindi probabilmente non è così priva di senso.
Al di là di questo e da ogni riflesso politico le ho trovate comunque belle e particolari.