Vini di Puglia, seconda puntata: i rossi

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mappa-vino-doc-zone-produzione-pugliaDopo aver parlato di bianchi e rosati (leggi qui ) proseguiamo la panoramica sui vini pugliesi con la puntata dedicata ai rossi. Che la Puglia sia regione rossista è fatto più che noto e l’ultima tornata degli assaggi guidaioli lo conferma. Ormai corone, eccellenze, bicchieri e chi più ne ha più ne metta sono stati pubblicati ed il quadro che ne emerge mostra una regione in crescita ma sempre col freno a mano tirato. Basti guardare un KPI (key performance indicator o indicatore chiave di prestazione, perdonate questo “reflusso” ingegneristico) molto parziale ed opinabile ma a mio avviso sintomatico: il numero di premi della critica rapportato al complesso della produzione regionale e che pone la Puglia all’ultimo posto in Italia.

Questa regione affascinante è infatti uno dei distretti produttivi più importanti e ricchi di storia del nostro paese. Da sempre è ribattezzata “la cantina d’Italia”, per quelle autocisterne che trasporta(va)no verso nord milioni di litri di rossi morbidi e generosi, figli della sua fertile terra, atti a rimpolpare lo scheletro di qualche produzione in carenza di …sostanza. Per decenni questo enorme potenziale è stato diluito in produzioni di mediocri qualità, cosa che purtroppo continua ad accadere anche oggi. Però è indubbio che negli ultimi anni sia aumentato considerevolmente il numero di interpreti sensibili e di talento che hanno affiancato qualche ottima cantina storica nel tentativo di proteggere e valorizzare le peculiarità di questa terra.

Il distretto verso il quale il buon bevitore deve puntare dritto e deciso e senza dubbio quello di Gioia del Colle. Da questo altopiano roccioso situato nella parte centrale della Murgia provengono le espressioni più fresche, dinamiche ed interessanti del Primitivo. Sono zone carsiche, collinari, molto ventilate e con notevoli escursioni termiche rispetto al resto della regione. Ecco allora che il Primitivo trova qui un ventaglio di profumi più ampio e fine, una vena acida più profonda e persistente, un’armonia complessiva che difficilmente riesce a raggiungere altrove. I nomi da segnalare sono diversi, alcuni già noti al grande pubblico, altri che lo saranno a breve. Ne sparo qualcuno, pur sapendo che molti altri meriterebbero la citazione.

Polvanera lo conoscete ormai tutti: pluripremiato dalla critica, i suoi Primitivo a varie gradazioni alcoliche (“14”, “16”, “17”) sono uno più buono dell’altro, con una tecnica magistrale che tiene a bada la naturale irruenza del vitigno. Idem per Nicola Chiaromonte: i suoi Muro Sant’Angelo “base” e “contrada Barbatto” sono inossidabili ai vertici della denominazione, coniugando potenza alcolica e dinamismo, in un equilibrio “alto” per molti inarrivabile. Altro riferimento certo è quello di Plantamura: cura del vigneto, vinificazione attenta e piedi per terra sono alla base di vini sapidi ed eleganti. Potrei proseguire con Donato Giuliani e i suoi Primitivo sinceri, veraci, sapidi e longevi; oppure con Francesco Cannito e la sua linea Drùmon, potente e profonda; o ancora con lo “storico” Fatalone della famiglia Petrera, che più attivamente di tutti si è impegnata nella salvaguardia di questo vitigno. Insomma, se non l’avete ancora capito a Gioia del Colle si “pesca” bene e tra prospettive e certezze siamo messi più che bene.

Restando in tema di Primitivo ma spostandoci più a sud arriviamo ovviamente nella terra salentina. Qui confesso di incontrare maggiori difficoltà. Il profilo dei vini, per questioni territoriali e climatiche, tende ad essere più carico, più materico, con la classica esuberanza alcolica e fruttata a dettar legge. Di aziende che lavorano bene, sia storiche che di recente costituzione, ce ne sono molte e faccio senz’altro torto a qualcuno non citandole. Ma, parafrasando una leggendaria radiocronaca ciclistica, c’è “un uomo solo al comando, il suo vino è l’ES, il suo nome è Gianfranco Fino”. E’ indubbio – riconoscimenti…e vini alla mano – che in pochi anni questo sensibile vitivinicoltore abbia saputo ritagliarsi un posto tra i grandi del panorama nazionale e i suoi vini, strutturatissimi ma definitissimi, sono l’esempio delle grandi potenzialità di quest’uva.

Restando nel Salento passiamo all’altro grande protagonista in rosso, il Negramaro, che da solo o nel classico blend con la Malvasia Nera, troviamo in una miriade di versioni, che vanno dal rosso beverino d’annata al prodotto strutturato e da lungo invecchiamento. In questo caso i registri espressivi sono tanti e molto diversi fra loro, per cui fatico ad individuare un tratto comune e distintivo. Mi vengono però facili in mente autentici gioielli. Qualche esempio? Le Braci di Severino Garofano, autentico padre della rinascita dell’enologia del sud: vino sontuoso, articolato, profondo, sfaccettato. Oppure il Graticciaia di Agricole Vallone, vino stratificato, aristocratico ma conviviale, di rara eleganza. O per finire i vini sapidi, sinceri e convenientissimi di Cupertinum, una cantina sociale encomiabile e riferimento sicuro per chi vuole conoscere il negramaro tradizionale.

Chiudiamo questa panoramica con il Nero di Troia e il Cacc’e Mmitte di Lucera.

In un immaginario podio dei migliori vitigni pugliesi il l’Uva di troia troverebbe senz’altro un posto. Personalmente confesso di non avere una particolare predilezione per questo vitigno, che al di là di qualche risultato promettente (in special modo nella zona “classica” di Castel del Monte), tende a dar vita a vini irruenti, speziati, rustici, che solo i “manici” migliori riescono ad addomesticare a dovere, ottenendone in tal caso etichette ricche di vigore ma non pesanti. Un nome? Beh, senz’altro quello di Rivera, cantina prestigiosa che da sempre ha valorizzato il vitigno: provare per credere il Puer Apuliae o il classico Il Falcone.

Il Cacc’e Mmitte è stata invece per me la vera sorpresa dell’ultima tornata di assaggi. Questa denominazione storica del nord della Puglia è stata per anni in declino, ma oggi, grazie all’impegno di aziende testarde e serie, sta vivendo una vera rinascita. Il Cacc’e Mmite era il vino dei poveri, che i contadini ottenevano “spigolando” dai vigneti dei grandi proprietari i grappolini rimasti dopo la vendemmia, sia bianchi che rossi (uva di troia, montepulciano, sangiovese, malvasia nera e bianca, bombino bianco, trebbiano toscano). Il nome letteralmente significa, “togli e metti”, visto che la vinificazione era fatta in cantine usate da più persone e doveva essere fatta in fretta per dare spazio al successivo contadino. Ne scaturiva un vino facile e semplice da bere, compagno della tavola e nei campi durante il lavoro. Questa vocazione autenticamente gastronomica è rimasta anche nelle versioni di oggi, decisamente migliorate nella tecnica, di stimolante naturalezza espressiva e capaci di dialogare in maniera schietta e sincera col bevitore. Un nome che da anni sforna prodotti eccellenti con continuità è quello di Alberto Longo, la cui fama ha ormai varcato i confini regionali. Meno noti al grande pubblico ma altrettanto buoni sono invece i vini di Agricola Paglione e Paolo Petrilli. Se cercate una beva verace, rilassata e piacevole, è qui che dovete cercare!

Franco Santini

Franco Santini (santini@acquabuona.it), abruzzese, ingegnere per mestiere, giornalista per passione, ha iniziato a scrivere nel 1998 per L’Ente Editoriale dell’Arma dei Carabinieri. Pian piano, da argomenti tecnico-scientifici è passato al vino e all’enogastronomia, e ora non vuol sentire parlare d’altro! Grande conoscitore della realtà vitivinicola abruzzese, sta allargando sempre più i suoi “confini” al resto dell’Italia enoica. Sceglie le sue mète di viaggio a partire dalla superficie vitata del luogo, e costringe la sua povera compagna ad aiutarlo nella missione di tenere alto il consumo medio di vino pro-capite del paese!

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