E’ un argomento, quello dei VINI “macerati”, lasciato volutamente decantare (macerare?) nei meandri complicati delle mie (in)consapevolezze. Ma non perché non li abbia frequentati più, i “macerati”, ma perché ai fini di un ragionamento che intenda puntare ad una sorta di approdo il tempo ha voluto la sua parte. Legittimamente, il tempo ha chiesto tempo.
Troppa d’altronde la subitanea ammirazione per una (ri)scoperta, per quel ritorno all’antico capace così maledettamente bene di ammiccare al futuro. Inevitabile quindi l’infatuazione, non esente da peccati di cerebralità e gioventù, per un percorso tanto audace quanto foriero di potenziali meraviglie; un percorso peraltro saldamente compenetratosi con l’onda montante della naturalità, del rispetto per l’ambiente, dell’ecosostenibilità: quanto di più pressante ci chiedono oggi la nostra terra e la nostra agricoltura.
Da nord a sud della penisola, grazie al tam tam mediatico e al passaparola sotterraneo, una sempre meno residuale minoranza di viticoltori andava così cimentandosi con il metodo nuovo, che poi era come ritornare alle origini. E insieme al metodo riscopriva il significato più profondo di lavorare con i lieviti indigeni, di fare a meno delle filtrazioni, di sperimentare vasi vinari differenti, di esplorare eventuali “vocazioni da maratoneta” nei bianchi così ridisegnati, lasciando in tal modo più libero sfogo al “naturale” percorso dell’uva nella sua trasformazione in vino.
Ma come per ogni buona prassi enologica che si rispetti, occorre tempo per affermarne l’eventuale efficacia. Ché poi non confondiamoci: giochiamo a far le pulci ai vini, a vivisezionarli con ragionamenti finanche arguti che ci riconducano alle ragioni di un terroir o agli intendimenti stilistici di un produttore o di tal altro, ma a noi in fondo piace pensare che il coraggio di una scelta “via dalla pazza folla” sia stato nutrito da altri valori, soprattutto etici. Non tanto e non solo il recupero di metodi ancestrali per dimostrarne la valenza attuale dal punto di vista qualitativo e culturale, ma un modo diverso di vivere la campagna e di rispettare la terra. Senza più filtri, né dentro né fuori, a riflettere nel solco profondo di una ricerca di naturalità scelte di vita forti e interiorizzate, a volte radicali, che a ben vedere potrebbero significare tirarsi fuori dall’agone, non scendere a compromessi, quindi porre in secondo o terzo piano alcuni aspetti per così dire fenomenologici dell’universo-vino, quale quello di una sua classificazione fondata sulla benedetta qualità percepita.
Io però -alla mia maniera- sono all’antica, e al tema della “identità sensoriale”, per dire, non ci rinuncio facilmente, checchennedicano i metodi e i distinguo. Perché penso che anche in questi ambiti “purificati” sia legittimo misurare le differenze, comparare, valutare, scegliere. E chiedersi se oggi abbia un senso rischiare il sacrificio di dettagli preziosi nel nome di un metodo, quale quello che va a trasformare la proverbiale freschezza di un vino bianco (il passepartout per la piacevolezza) in qualcosa che in realtà si vorrebbe evitare come la peste: l’omologazione del gusto. Per creare, sia pur nella diversità dei modi e dei gesti, un altro “ordine omologatorio”, irreggimentato e riproducibile come un autentico cliché. Beh, se così fosse capite bene che si tratterebbe di un errore dello spirito, ancor più che strategico!
Quando perciò a difendere le insegne della categoria hai dalla tua parte un territorio “tracciante” tipo il Carso, ecco che il discorso prende un’altra piega. Ed ecco allora che la provvidenziale messa a punto del metodo potrà rappresentare il tramite efficace (non il fine) per traghettare un “macerato” verso approdi di compiutezza. Una compiutezza diversa magari, compenetrata da un linguaggio espressivo altro, ma che significherà pur sempre COMPIUTEZZA, tipica di un orizzonte organolettico a suo modo concretizzatosi, nel quale non potrà trovare spazio l’ordinario e in nome del quale non verranno sacrificate articolazione e sfumature.
E così l’affresco aromatico non si comprimerà (più) nell’indistinguibile universo ossidativo in odor di tisane e iodosan, ma sarà in grado di risaltare la naturale dolcezza del frutto, sì da comprenderne le cento sfaccettature diverse a seconda della varietà di uve utilizzate. E il potenziale evocativo delle erbe aromatiche di una Malvasia Istriana, faccio per dire, potrà essere esplorato con dovizia di particolari, con la fibra della cultivar bellamente messa a nudo – che ti sembrerà quasi di masticarla- e la sensazione salmastra figlia di quelle coste ventose felicemente svelata, senza incagliarsi in derive tanniche velleitarie, che calzate addosso ad un vino bianco sostanzialmente striderebbero.
Ecco, è nell’ambito di un orizzonte sensoriale finalmente dispiegatosi, quale espressione limpida e non mediata di una compiutezza piacevole, che io mi sento a proprio agio. Ed è in compagnia di certi vini, e solo di quelli, che mi riapproprio del coinvolgimento. Allora tutto tende a riacquistare il giusto peso, spegnendo così l’urgenza di ulteriori “macerazioni” mentali.
Si può fare oggi, certo che si può fare, e di esempi mirabili in tal senso ne esistono eccome, ma in molti casi ancora mi perplimo per la delusione, se solo penso alla massa incolore di vini appartenenti alla suddetta schiera venuti al mondo nel solo nome della tecnica, senza l’avallo della individualità, della riconoscibilità e della cifra identitaria.
E cioè che se per una volta -nella vita o nella storia dell’uomo- l’imprenditore agricolo intravvede in una pratica agronomica più pulita il miraggio di un nuovo business, ben venga l’aspetto affaristico della faccenda quando ciò serva a convertire coscienze altrimenti non convertibili! Si tratterebbe pur sempre di un cambiamento epocale, tanto più importante quanto più a largo raggio praticato e accolto. Perché andrà a favore della terra e di essa sola, l’unica circostanza per la quale i futuri abitanti di questo pianeta, consci delle nefandezze perpetrate all’ambiente dalle generazioni presenti e passate, potrebbero persino concederci il gesto compassionevole di un timido grazie.
una lettura gratificante, grazie Fernando.
E io ringrazio te per la paziente lettura, Roberto.