Cyril Fahl, Yvon Métras, Teobaldo Rivella, Luca e Alfredo Roagna appartengono di diritto a siffatta specie. E’ anche grazie a loro se da più parti si levano alte le voci affinché la speciale razza venga alfine protetta.
Sicuro c’è che di fronte a certi vini le libere parole ne restano agevolate.
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Côtes Catalanes Blanc Clos de Rouge Gorge 2016 – Cyril Fahl
Dopo Matassa e Gauby, protagonisti di un recentissimo “vini del mese”, ecco qua un altro protagonista del rinascimento enoico delle coste catalane francesi: Cyril Fahl. Dai vecchi ceppi (anche centenari) del Clos de Rouge Gorge, nei Pirenei orientali, alle spalle di Perpignan, stimolati da una viticoltura empatica, Cyril vi ricava un maccabeu in purezza che ti inchioda all’ascolto.
E’ per per via della incontenibile energia, in perfetto bilico fra fisicità ed introspezione, forza e delicatezza. E per la sua naturale predisposizione al dialogo, fitta di rimandi e di asserzioni.
Ma è anche perché la sua bocca muove dai contrasti per ricavarne accelerazioni, e la solarità qui sposa l’eleganza, e questa sì che è una alchimia!
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Beaujolais 2016 – Yvon Métras
Sembra che il vigneto da cui proviene il suo Beaujolais appartenga di fatto all’areale pregiato della denominazione Fleury, ma non possa rivendicarlo in etichetta per via dell’altitudine: troppa! Anche lì non scherzano, quanto a stranezze. Fatto sta che quei 500 metri di altitudine possono ben spiegare tutta questa levità, tutto questo candore dentro un bicchiere che porta in filigrana le insegne di un gamay trasfigurato in grazia.
La freschezza e il sorso leggero, l’istinto e la scorrevolezza, il frutto rosso (e puro) del bosco ed il fiore, la spezia e il melograno. E una trama che non ti fa apprezzare il fatidico gradino tannico. E quel rivolo vinoso che richiama alla mente qualcosa che credevi di conoscere e dare per scontato, riguardo al Beaujolais e alla fisionomia polposa ed evidente dei suoi vini, eppure non è così. Ben presto ti accorgerai che dopo Yvon Metras ( e Thevenet, e Foillard, e Breton, e Lapierre) tutto acquisisce un altro senso, ed il territorio, se in questi vini vi respira, vi respira in un’altra maniera.
Ah, quasi dimenticavo: è un vino che rapisce, e in quanto tale vero e proprio “voleur des âmes“.
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Barbaresco Montestefano 2015 – Serafino Rivella
Il Barbaresco Montestefano 2015 è il nebbiolo più buono mai assaggiato fin qui di quell’annata, e lo dico dopo un centinaio di portavoce testati là per là, poche ore prima di lui. La sua struggente purezza non lascia trapelare alcuna velleità alcolica, mentre la capacità di dettaglio, la filigrana tattile, la naturale scioltezza, il sale e la melodia sottile di cui si veste lo apparentano perfettamente alla silenziosa armonia della campagna attorno.
Quel Barbaresco, e pure il suo artefice, hanno un cuore di marna blu, ed io insieme a loro sono stato bene.
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Barbaresco Montefico VV 2013 – Roagna
Quasi tu stessi bevendo un sasso liquido, dissimula saldezza in una trama ricamata, confidenziale, che letteralmente irradia e diffonde mineralità, offrendo ai sensi un effetto di straordinaria singolarità, raramente apprezzato nei vini del mondo.
Eppure proviene da Montefico, da vecchi ceppi di nebbiolo e dalla vendemmia più tardiva di tutte, fra quelle in uso presso i possedimenti della famiglia Roagna. Assieme al Pajé, qui sono solito chiamarlo vino di struttura. Chissà perché c’è qualcosa d’altro in lui che mi allontana dal concetto sintetico di “vino strutturato”.
Forse sarà che non ama la sintesi, fatto sta che a me sembra abbia più a che vedere con l’aria che non con la terra, e come per tutte le cose che si muovono in elevazione il corpo, si sa, resta in subordine, lontano retaggio il cui peso ormai non lo senti più.
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Nella prima immagine: “Donna che beve vino” (Gerard ter Borch, 1656)