Tanti i temi trattati nei seminari di approfondimento (il problema di comunicare il mondo degli spumanti italiani come singola entità; le cause dell’esplosione del consumo degli spumanti, tra rinnovamento di una tradizione che aveva bisogno di essere rivitalizzata e nuove mode; influenza di nuove tecnologie, informatizzazione e sostenibilità sulla produzione e il commercio degli spumanti….), affrontati con pluralità di approccio da presidenti di consorzi, produttori, accademici e giornalisti. Numerose le case histories, aziendali e consortili, proposte e analizzate. Fare una sintesi è pertanto quanto meno azzardato, e non è caso che gli atti delle relative discussioni saranno successivamente pubblicati, con presentazione al prossimo Vinitaly. Quanto segue è pertanto un’interpretazione del sottoscritto dei principali punti che sono emersi, collegati con una consequenzialità logica del tutto personale, con qualche considerazione a latere.
Il boom degli spumanti italiani è chiaramente figlio del fenomeno Prosecco, e non è un caso che tale termine sia stato quello più frequentemente citato. Il successo commerciale e mediatico è stato ovviamente un bene, ma questo trend così positivo di consumi ed esportazioni può per certi versi essere considerato come un colosso dai piedi di argilla, visto che più del 60% del totale delle esportazioni è afferente appunto al Prosecco nelle sue varie denominazioni e tipologie, e che il prezzo medio per bottiglia venduta permane molto inferiore alla concorrenza francese (ca. 3,4 €/bt contro più di 14 €/bt), anche se disaggregando i dati si evince che certe denominazioni se la passano meglio e che gli sforzi dei produttori sono adeguatamente renumerati.
Ma produrre spumante è un gioco costoso, per gli investimenti necessari sia nel caso del metodo classico (immobilizzo di grandi quantità di vino durante l’affinamento sui lieviti, manualità e relativo costo in ore di lavoro, oppure acquisto delle macchine necessarie ad automatizzare il lavoro di cantina), sia adottando il metodo Charmat (orgogliosamente denominato metodo Martinotti, o più spesso metodo italiano), per l’acquisto delle autoclavi, ecc.
Inoltre, la varietà di vitigni e ambienti pedo-climatici potenzialmente a disposizione è certamente un atout da valorizzare, ma non è detto che TUTTI i terroir e i vitigni siano adatti, né che TUTTI i progetti siano economicamente sostenibili (tra l’altro, anche in termini di investimenti in ricerca necessari). Infine, molte piccole realtà (aziendali e di comprensorio) difettano del peso specifico per promuoversi adeguatamente e/o di un riferimento commerciale di successo da sfruttare “per emulazione” al fine di accedere a certi mercati. Appunto, il caso del Prosecco non fa testo per le dimensioni che ha raggiunto, anche se conforta che il fenomeno sia nato da alcuni produttori che si sono battuti con caparbietà in prima persona per “imporre” il prodotto.
Ciò detto, sono stati enunciati con convinzione alcuni prerequisiti fondamentali per poter solo pensare un’attività spumantistica di successo. In primis una sinergia virtuosa tra vitigno e territorio, con il primo che non deve appiattirsi sulle proprie peculiarità varietali (che poi è il motivo per cui la Glera è stata piantata anche in Australia…), ma al contrario divenire qualcosa di più e di diverso in forza di un contesto pedo-climatico unico e irriproducibile. Ciò avviene tramite la personale sensibilità del produttore, trait d’union e in qualche modo “servitore” di quanto precede tramite la sincerità dei propri intenti e l’accuratezza del proprio lavoro. In altre parole, occorre un terroir che esprima unicità, poiché divertirsi a spumantizzare un vitigno autoctono senza tale prospettiva rimane un gioco più o meno fine a se stesso.
Sorge però il problema di come identificare, comunicare e promuovere a vari livelli questa cornucopia di prorompenti individualità (ripeto, non tutti i territori e non tutti i vitigni a prescindere). E’ parere di chi Vi scrive che il criterio aggregante, identitario, è proprio la differenziazione. Nel senso che la varietà che il mondo del vino italiano può proporre non può essere eguagliata altrove. E in un mercato fortunatamente sempre più affamato di novità ed esperienze non omologate tutto questo “ben di Dio” di disponibilità può essere raccontato come una grande opportunità. Non si deve temere se ciò si verifica soprattutto in un segmento “premium” di prezzi e immagine del prodotto: le produzioni “confidenziali” per il mercato internazionale di tanti spumanti italiani impediscono a priori che essi possano trasformarsi in “commodity”, ovvero in un bene di consumo quotidiano, che si dà per scontato e che a livello commerciale vive una continua corsa al prezzo più basso. Vedi le presenti vendite massicce di Prosecco nel Regno Unito nel timore di una hard Brexit, che interessano prevalentemente i prodotti più correnti, con l’esclusione dei più curati DOCG (e tanto meno i Cartizze e le selezioni Rive).
Un marchio collettivo, ad esempio, per l’appunto Spumantitalia, potrebbe essere contemporaneamente un logo aggregativo di molte piccole realtà alla ricerca di visibilità per garantire loro le risorse collettive di un progetto di promozione comune, e contemporaneamente una dichiarazione programmatica. E dovrebbe avere un inquadramento ufficiale, vista l’italica litigiosità che divide soggetti che dovrebbero condividere azioni e scopi. Più di un Presidente di Consorzio ha rivendicato la necessità di un sistema di regole che impedisca l’appiattimento qualitativo, nonché l’aggregazione al sistema di prodotti non all’altezza, prima di lanciare un marchio che potrebbe significare tutto e niente, operazione più di immagine che di sostanza, buona più per le strette di mano davanti alle telecamere che non per reali progressi.
E’ stata proposta una soluzione consistente nell’inclusione solo dei vini che rispettano le regole delle rispettive DOC di riferimento, con un declassamento a livello di IGP per quei prodotti che esprimono SOLO un’identità varietale (si immagini il potenziale caso di Glera piantata in Sicilia…). Ciò avrebbe anche il vantaggio di evitare discussioni potenzialmente interminabili tra singoli produttori e lobby di gruppi di essi, nel pio desiderio di definire, più che un disciplinare, un codice deontologico nazionale vòlto alla qualità.
A un giorno e mezzo di seminari e convegni, di cui non pretendo di aver dato conto in modo esaustivo, è seguita una interessante degustazione nella quale era possibile confrontare un centinaio di spumanti, metodo classico o Martinotti, provenienti praticamente da tutte le regioni d’Italia, con le più diverse varietà declinate nelle più fantasiose interpretazioni, in termini di livello di maturità, residuo zuccherino, permanenza sui lieviti (non mancavano ovviamente fermentazioni ancestrali e quant’altro). Occasione per l’appassionato quanto mai divertente, ma occorre dire che alcuni campioni provati dal sottoscritto erano al di sotto di quanto si può considerare, mutatis mutandis, un minimo sindacale di piacevolezza, di volta in volta per carenza di frutto, grossolanità del perlage o scarsa integrazione dell’acidità nel corpo del vino.
In sintesi, la spumantizzazione non si improvvisa, vuole ricerca e dedizione, e cavalcare la tigre della moda non è sufficiente. Quando un numero sempre maggiore di spumanti italiani (che già tanti se ne trovano) saranno all’altezza di quanto un consumatore evoluto richiede, le previsioni di Spumantitalia, proposte lungimiranti gettate come sassi nello stagno, creeranno un marea montante sempre più difficile da arrestare.
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Condivido il legame territorio vitigno e l’esempio dell’amplificatore che hai fatto. Sul marchio collettivo la vedo più dura da realizzare, e non solo per campanilismo, ma sopratutto per investimenti in pubblicità che solo alcuni consorzi hanno fatto e che difficilmente vorranno condividere. Storicamente mi viene in mente il marchio Talento che naufragò prima di partire, e come si sa la storia si ripete…