In un mercato globalizzato i vignaioli lottano disperatamente per affermare la propria unicità: da molto tempo ormai non è più sufficiente proclamare che un vino è buono, tipico o quel che sia (“territoriale” compreso), bisogna diffondere il messaggio con modalità differenziate a seconda del destinatario di riferimento; strumenti una volta scontati, come ad esempio la brochure aziendale, vengono completamente ripensati, a volte con tecnica quasi subdola ma potenziale, ovvero il famigerato storytelling: come dire, all’occhio del profano, parlo apparentemente d’altro per focalizzare l’attenzione sul messaggio da far recepire. Pure, a monte, non si può prescindere dai contenuti, ed è una riflessione che mi è balzata alla mente dopo una recente esperienza.
Va da sé che con tale aspirazione alla definizione sistematica, un’adeguata documentazione a monte della degustazione è necessaria, e pertanto il sottoscritto si è procurato le schede tecniche di tutti i campioni presenti: detto fuori dai denti, mi sono cascate le braccia, ovvero tutte quelle schede (che per le aziende hanno un costo!) erano speculari una all’altra, quasi fossero il frutto di una perversa operazione di copia e incolla.
Infine, per quanto attiene gli ormai inevitabili suggerimenti per gli abbinamenti, informazioni così ansiosamente richieste dal mercato internazionale, le aziende se la cavavano salomonicamente con un “adatto come aperitivo e a tutto pasto”, con qualche episodica puntualizzazione di specifiche pietanze. Mi duole dire che per quello che mi ripromettevo di trarre dalla degustazione, le predette schede non mi sono state di nessun aiuto!
Mi sono quindi chiesto a cosa servisse tutto ciò (ripeto, una scheda tecnica ha un costo). A mio avviso, se un interlocutore di un’azienda, a qualunque livello (sommellerie, clientela retail, buyers, stampa specializzata) si “compromette” a richiedere una scheda tecnica, in un mondo perfetto (e magari anche in questo) dovrebbe avere un qualche interesse a conoscere come e perché un vino è fatto in un certo modo. Senza che una scheda debba trasformarsi in un mini trattato di enologia o di agronomia (che la leggibilità e la fruibilità sono caratteristiche essenziali), si potrebbe/dovrebbe osare di più nell’approfondire la descrizione di una certa etichetta, evidenziando tutti quei fattori critici che fanno sì che quel vino sia proprio quello e non altro.
In primis, la descrizione del territorio: giaciture, composizione dei suoli, esposizioni, gradienti termici, magari con una concisa sottolineatura di ciò che tutti questi fattori determinano, poiché non è così scontato che certi collegamenti causa-effetto siano noti. Poi il vigneto: ad esempio, nel caso specifico del Pinot Nero, comunicare che sono stati scelti cloni selezionati nella Champagne (o altrove) in quanto consentono una notevole maturità delle bucce (e quindi degli aromi) senza smarrire quell’acidità necessaria alla presa di spuma, potrebbe essere un valore aggiunto.
Ovviamente, con questo non voglio affermare che la scheda tecnica fa il prezzo, piuttosto che descrivere con precisione il lavoro svolto in vigna e in cantina contribuisce alla “premiumizzazione” (madonna quanto è brutta questa parola!) di una determinata etichetta. E lo stesso fatto di sottoporre all’attenzione degli astanti una scheda tecnica circostanziata non è forse una prova che ci si pone il problema di fare le cose per bene, e che non si esegue un compitino tirato via giusto perché non se ne può fare a meno?
La scheda tecnica non è certo l’alfa e l’omega della comunicazione del vino. Ma, in considerazione degli sforzi e delle risorse che a prescindere i produttori dedicano a raccontare il proprio lavoro, non dovrebbe essere misconosciuto il fatto che anch’essa, nel suo piccolo (che poi tanto piccolo non è) potrebbe e dovrebbe contribuire ad evidenziare che si è unici, si è magici, che si ama profondamente il proprio lavoro e che il liquido che ammicca invitante da quel calice ne è la diretta e piacevolissima conseguenza.