In un’epoca in cui si esagera su ogni cibo e bevanda, si idolatra ogni bruciapentole o cantiniere che passi per la strada, si tessono le lodi di ogni più sconosciuto vitigno locale (“ossignùr quant’è buono il vino da barbetta”, “ossignùr quant’è buono il vino da catalanesca”, ““ossignùr quant’è buono il vino da pugnitello”), il casto pinot bianco rimane misteriosamente ai margini del chiacchiericcio tra enomani.
Eppure poche varietà sanno restituire con altrettanta fedeltà i caratteri della loro terra, ma soprattutto donare bianchi dalle pulsazioni gustative tanto ritmiche e musicali. Dell’uva pinot bianco occorre ritenere alcune nozioni di base:
– si dice da tempo che sia una mutazione del pinot nero. Questo dato può servirvi per intimidire i vostri interlocutori a tavola (a meno che per vostra sfortuna non sia presente un ampelografo che contesti la vostra affermazione sulla scorta delle più recenti analisi sul DNA della pianta)
– per i francesi storicamente il pinot bianco è meno valido del pinot grigio; per gli italiani vale il contrario. Secondo Jancis Robinson “nel vigneto francese la vigoria non è considerata attributo dei vitigni nobili. Non è dunque sorprendente che il pinot bianco non goda di un grande prestigio in Alsazia. Al contrario il pinot grigio, che ha rese relativamente basse, è rinomato per la sua qualità
– ha alcune somiglianze strutturali con lo chardonnay (era chiamato un tempo pinot-chardonnay), per esempio nelle foglie, che sono quasi identiche. Non ci azzecca molto invece sul piano delle risultanze aromatiche (il pinot bianco è più “neutro” en vin jeune)
– in Alto Adige e nei paesi germanofoni si chiama Weissburgunder
– sempre in Alto Adige, da giovane ha una stupefacente capacità mimetica: pochi profumi, poca spinta gustativa, poca profondità. Tutta apparenza. Si nasconde. Con qualche anno di bottiglia – diciamo in media due o tre – sfodera una classe e una forza espressiva che si mangia in insalata quasi tutti gli altri bianchi regionali.
Quest’ultimo punto resiste a ogni tentativo di falsificazione e ha una ricorrenza statistica rilevante. In sintesi, il pinot bianco frega molti degustatori. Ne ho viste di cantonate, ho visto cose che voi umani… ecco, il monologo dell’androide di Blade Runner con il pinot bianco funziona così:
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
Sagrantino di Montefalco in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
e ho visto i bianchi di Jean-Marc Roulot balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti non varranno un buon Weissburgunder.
È tempo di stappare.»
Fedele a questo insegnamento, mi sono apprestato a bere con soddisfazione la nuova annata di un Pinot Bianco ormai riassorbito nalla classicità altoatesina e italiana: il Weissburgunder In der lamm di Martin Abraham, vendemmia 2018. Posso dire senza iperbole alcuna che si tratta del più compiuto e convincente Pinot Bianco ch’io abbia assaggiato nell’ultimo quarto di secolo.
Ho chiesto a Martin e Marlies alcuni dettagli sul vino, mi hanno mandato il PDF della scheda tecnica, dalla quale traggo i punti centrali:
Località “in der lamm” a Cornaiano, a circa 500 metri sul livello del mare. Il terreno è composto da morene dell’ultima glaciazione, miste a pietrisco vulcanico, ricco di minerali di porfido e quarzo. Età della viti maggiore di 60 anni, allevate a pergola tradizionale.
Tripla selezione di uve in vendemmia, fermentazione con lieviti naturali in tonneaux. Affinamento post-malolattica sulle fecce per nove mesi, quindi in acciaio per sei mesi.
Fine.
Ne risulta un bianco di scintillante energia, che “borgognoneggia” più del solito. Alla cieca non pochi assaggiatori lo potrebbero prendere per un Meursault: non è un titolo di merito particolare né una patente di nobiltà, ma una semplice suggestione sensoriale. Il Weissburgunder In der lamm 2018 basta a se stesso e nei fatti è un vero Pinot Bianco, pur nei suoi accenti chardonnayizzanti.
Da bere a pioggia, o meglio a cascata, se poi non dovete guidare o svolgere una qualsiasi mansione che richieda vigilanza.
Faccio i miei migliori auguri a Fabio Rizzari che scrive adesso su Acquabuona, cosa che ho fatto anch’io per un paio d’anni con una quarantina di articoli e che mi riempie sempre il cuore. Sono convinto che qui si troverà a suo agio com’è successo a me e magari un bel giorno tornerò anch’io a farlo. E’ un gran bel gruppo. In bocca al lupo!
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