AMSTERDAM
30 luglio – 3 agosto 2021
Insomma, arrivo che piove a catinelle, la situazione ideale mentre uno scarica i bagagli, e poi cerco un posteggio. Già, il posteggio. Avevo visto la padrona di casa guardarmi in modo sorpreso, perfino strano, quando le ho detto che ero venuto ad Amsterdam in auto (e in auto ci sono venuto perché arrivavo dalla Germania, fossi partito da Milano avrei preso l’aereo come tutti). Amsterdam non è la città delle auto, questo lo sanno tutti, ma uno non immagina quanto. I parcheggi più prossimi all’appartamento sono a rimozione forzata per chi non ha l’auto elettrica (qui ci sono distributori, o meglio le colonnine di ricarica, a ogni angolo, perché qui tutti, o quasi, quelli che viaggiano in macchina hanno l’auto elettrica o tuttalpiù ibrida), ma ne vedo uno sorprendente libero pochi metri oltre. Parcheggio immediatamente, quasi fregandomi le mani. Poi, però, vado al parchimetro e ci manca poco che non mi caschi la mascella: la tariffa è di 6 euro all’ora, più di Ravello, dei garage del centro di Milano o di qualsiasi altro posto dove abbia mai parcheggiato. Non solo: si paga dalle otto del mattino a mezzanotte. Facendo un rapido calcolo, il soggiorno di cinque notti rischia di costarmi qualcosa come 500 euro solo di parcheggio. Dopo il panico, compulso internet e opto per una cifra più sostenibile in un garage a tre chilometri di distanza: vi si accede con il QR Code e la tariffa agevolata vale solo con la transazione online.
Ad Amsterdam circolano poco contante e molte biciclette, più di mezzo milione (alcuni dicono che ci sono più biciclette che amsterdammers e ogni anno ne vengono ripescate 1500 dai canali), e sono tutte registrate, come da noi le auto. Simbolo di una mobilità cittadina che trova il proprio totem nel gigantesco parcheggio multipiano sul lato della Centraal Station e rappresentato dagli sciami su due ruote che ogni giorni sfrecciano sulle centinaia di chilometri di piste ciclabili urbane, la bicicletta olandese frena generalmente con il contropedale (potrebbe capitarvi qualche sgradito blocco sulle prime, come quando si prova per la prima volta il cambio automatico) e irrompe nel traffico. I ciclisti sono abituati a correre senza preoccuparsi troppo del turista che non si è ancora orientato nel dedalo delle righe bianche disegnate sull’asfalto delle carreggiate, le quali, tra le svolte per le auto, i passaggi pedonali e, appunto, le ciclabili, possono risultare complesse come il piano di un gioco in scatola e richiedono, se siete in macchina, cento occhi d’attenzione: ogni volta che state per girare, soprattutto a destra, c’è senz’altro un ciclista che sta per venirvi addosso. Talvolta i ciclisti, i veri padroni della città, si dimenticano perfino i rispettare le strisce pedonali. Alla bicicletta hanno addirittura dedicato la galleria ciclopedonale che attraversa il Rijksmuseum, il museo principale della città, sulla cui cima sventola la bandiera arcobaleno del movimento LGBTQ.
Amsterdam è da sempre simbolo di cosmopolitismo e tolleranza. Sono centinaia le nazionalità presenti nel tessuto cittadino e questo lato multietnico è leggibile anche nel marcato carattere internazionale della cucina, che spesso sopperisce ai limiti congeniti di quella locale. Le iniziative culturali sono molteplici, la qualità della vita è molto alta (come il suo costo, superiore a quello del resto dell’Europa continentale).
Al mattino ti svegli in mezzo al silenzio, perché i veicoli a motore che circolano sono pochi e tutti elettrici, così come i battelli, i traghetti e i motoscafi, e il verso dei gabbiani ti ricorda che sei in un luogo di mare. I semafori scattano solo a richiesta. Non ci sono porte blindate nelle abitazioni né allarmi ai quadri nei musei. Le panchine sono dappertutto come le wi-fi pubbliche, mentre nell’aria è onnipresente l’odore della marijuana e delle canne a tutte le ore del giorno, specie al Dam, l’antica piazza del mercato che sorgeva sulla prima diga (dam) eretta nel XIII secolo, e ora punto informale di ritrovo. Vi si trovano il Koninklijk Paleis, il Palazzo Reale della capitale, il Museo delle Cere di Madame Tussauds e la sede di Booking.com, fondata qui nel 1996. Le droghe leggere, consumate a piacimento nei noti coffee shop, non sono – se non ho capito male – permesse dalla legge, ma non sono perseguite.
Jules (Samuel L. Jackson): Allora come sono questi hashish bar?
Vincent (John Travolta): Che vuoi sapere?
Jules: Lì l’hashish è legale?
Vincent: Sì, è legale, ma non al 100%. Voglio dire, non puoi entrare in un ristorante e rollarti una canna e metterti a sbevacchiare. Insomma ti lasciano fumare a casa o in certi posti ben precisi.
Jules: Ossia gli hashish bar.
Vincent: Sì, la faccenda è così. Ascolta. È legale comprarla, è legale possederla e, se sei il proprietario di un hashish bar, è legale venderla. È legale averla addosso, ma questo non importa, perché, sentimi bene, se vieni fermato da un poliziotto ad Amsterdam è illegale per lui perquisirti. Insomma questo diritto i poliziotti ad Amsterdam non ce l’hanno.
Jules: Eh, amico, ci vado subito. Non ci sono santi, cazzo se ci vado!
C’è un locale del Centrum con l’immagine di Jules Winnfield serigrafata sulla porta d’ingresso.
Nel suo Olanda, pubblicato nel 1876, Edmondo De Amicis descrive così Amsterdam: «La sua figura è un perfetto semi-circolo, percorso da tanti canali in forma d’archi concentrici a quello che chiude la città, e attraversati da altri canali convergenti al centro, come i fili di una tela di ragno». Per Marino Magliani, scrittore italiano trapiantato in Olanda e autore di pagine illuminanti sulla città nella Guida Verde del Touring (2019), Amsterdam è una farfalla e una città di porto senza un mare. Potrebbe anche assomigliare a un alveare. Anfibio.
Il De Pijp, il distretto dove soggiorno, era alla fine del XIX secolo un quartiere operaio ed è oggi considerato l’equivalente del quartiere latino di Parigi. Sull’asse centrale di Albert Cuypstraat, punteggiata da negozi e ristoranti, va in scena quotidianamente l’Albert Cuyp Markt, nato spontaneamente alla fine dell’Ottocento e attivo dal 1912. È un mercato più prosaico di quello descritto dalle guide, ma sulle sue disparate bancarelle (e sono centinaia) si trova di tutto (abbigliamento, oggetti vintage, elettronica, cosmetici, souvenir), compreso uno dei più completi foodcrossing multietnici della capitale: spande nell’aria gli aromi speziati ed esotici delle ex colonie olandesi come i sentori più forti e salmastri del mare del Nord (aringhe, cipolle).
Mi fermo da Yunus Berkan (“The best food in Amsterdam!”, recita umilmente lo striscione appeso sopra la bancarella), gestito da una coppia di curdi intorno alla sessantina. Lei, con il velo sul capo, è intenta a lavorare e non proferisce parola. Lui, da bravo imbonitore, non la smette di parlare. Mi chiede da dove vengo. Da Milano, rispondo. E lui: «Ah Milano! Milano is good. No mafia!». Evito di replicare. Poi mi chiede se voglio il pesto nei gözleme (piatto tipico turco, una pasta tirata a mano al momento su un grande tagliere di legno e poi cotta su una piastra di metallo). Sono recalcitrante, mica sono venuto ad Amsterdam per mangiare il pesto. Ma lui insiste, vuole farmelo provare a ogni costo, evidentemente vuole farmi sentire a casa. Annuisco, infine. E lui esclama, all’indirizzo della moglie, il grido della vittoria: «Pestooooo, yesss!», che da quel momento è diventato un modo di dire e il tormentone dell’estate. Poi ne ho preso un altro con patate e feta. Non so se fosse il miglior boccone etnico di Amsterdam, ma era buono.
Non sono infrequenti i panifici che sfornano cose appetitose come, sempre nel quartiere, due belle botteghe a poca distanza l’una dall’altra in Van Woustraat: Vlaamsch Broodhuys al civico 78H e Bakery Van Wou al civico 114.
Non lontano da qui, il Museumplein, un parco chiuso al traffico che sembra un atrio a cielo aperto, ospita i tre principali musei della città, i cui stili architettonici si specchiano a contrasto: la monumentalità neorinascimentale del Rijksmuseum, le superfici essenziali del Van Gogh Museum, la spericolata, aereodinamica copertura sporgente (la cosiddetta “vasca”) dello Stedelijk Museum con le sue collezioni contemporanee.
Si va al Rijksmuseum per vedere la grande arte olandese del Seicento, e anche in una giornata di riallestimento con alcune sale chiuse è difficile uscirne delusi. Ci sono i dipinti di Rembrandt, naturalmente, a partire dalla celebre Ronda di notte, un telero di grandi dimensioni, d’impatto scenografico e d’indubbia maestria pittorica, ma troppo dispersivo, forse, per sconvolgere come altri, più piccoli quadri del maestro di Leida. Ad esempio l’Autoritratto (e gli autoritratti di Rembrandt, una serie quasi infinita, raramente lasciano indifferenti, scavando nel profondo, traducendo un infausto senso di disillusione, disperazione, disfacimento), il celebre, melanconico Geremia che piange la distruzione di Gerusalemme o La profetessa Anna, conosciuta anche come Donna che legge (con quella luce diagonale e teatrale che proviene dall’alto, con quello scranno che sembra una forma organica – una vecchia testuggine come la testa della profetessa – e con quella mano appoggiata alla Bibbia che è un compendio di rughe in punta e finezza di pennello), oppure ancora un tardo capolavoro come La sposa ebrea, in cui la pennellata si fa sempre più gestuale, le spatole impazzano, i tessuti diventano materia ardente, il realismo crudo e implacabile sta per cedere alla dissoluzione dell’informale.
E poi c’è Johannes Vermeer, il pittore degli incantesimi e delle ipnosi. Ecco la luce ombrosa, quasi temporalesca, tipicamente olandese (come trascolora qui il cielo!) della Stradina di Delft, il suo paese natale. Ecco quella gioiosa, squillante della Lattaia. Ecco quella soffusa della Ragazza che legge la lettera, una sinfonia di blu: il lapislazzuli del bastone di ferro che sorregge la cartina geografica attaccata al muro, l’avio dell’imbottitura delle sedie, l’azzurro dell’abito della donna e uno sbaffo di colore analogo che proviene dalla fonte di luce sulla sinistra del quadro, probabilmente una finestra (presenza ricorrente nelle sue composizioni), che accarezza la protagonista e gli oggetti che la circondano.
Il Van Gogh Museum – inaugurato nel 1973 con la struttura principale di Gerrit Rietveld che ospita la collezione permanente, cui si sono poi aggiunti l’ala delle esposizioni di Kisho Kurokawa (1999) con il gabinetto delle stampe, e l’emiciclo vetrato che collega i due corpi (2015, opera dello studio Van Heeswijk, partendo dai disegni dello stesso Kurokawa) – contiene 2000 dipinti e circa 500 disegni. È il più vasto patrimonio artistico di Vincent van Gogh, diventato l’emblema dell’artista tormentato. La disposizione delle opere non procede per cronologia ma per accostamenti tematici. Al piano terra, ad esempio, scorrono sulle pareti i 12 autoritratti, dipinti tra il 1886 e il 1887, che sono altrettante variazioni sul tema del sé. È una carrellata stupefacente, in cui è possibile sondare le pieghe di un’inquieta introspezione. Con o senza il cappello, di paglia o di feltro, dentro le pennellate spiraliche o il delirio del colore, la galleria rimanda fisionomie e fattezze ora buffe, ora agitate, ora animalesche, ora demoniache (il suo volto ricorda ora il protagonista di Stalker di Tarkovskij, ora alcuni febbrili personaggi dostoevskiani), dentro le quali la disperazione sembra erompere da un momento all’altro.
Ai piani superiore scorrono quadri celebri come I mangiatori di patate, Fiori in un vaso, Girasoli, nature morte, marine e paesaggi. Su tutti s’imprimono nella retina della memoria la Stanza con il letto giallo, tra il naïf e il Nabis; il sinistro, acceso Campo di grano con il mietitore; il fosco, panoramico Campo di grano con i corvi, il suo commiato dall’arte e dalla vita.
Nei musei – cari come i parcheggi e come l’ingresso in ogni chiesa – ci sono pochi custodi per sala e poche persone con la mascherina. Sono capitato ad Amsterdam nell’agosto del 2021, quando la diffusione del Covid aveva superato la soglia d’allerta. Eppure tutti, o quasi tutti, noncuranti delle conseguenze, andavano in giro senza mascherina. Gli unici che le avevano erano i turisti. Non infrequenti erano le manifestazioni del No Vax. Per evitare rischi ho deciso di non andare nei ristoranti, nei locali e di non usare i mezzi pubblici, compresa la metropolitana (pare assurdo per una città costruita sull’acqua, ma ad Amsterdam c’è anche la metropolitana, benché la sua costruzione non sia stata indolore –alcune ferite del suo tessuto urbano sono tuttora visibili – e fonte di aspre controversie) e di affittare un’imbarcazione privata al posto dei battelli affollati per la crociera sui canali.
Trascorrere un’ora e un quarto a pelo d’acqua – tra canali, ponti, biciclette, case, cicogne, aironi, gabbiani, anatre – restituisce un’immagine diversa e più completa della città, e permette di notare la quantità di waterwoning, o case galleggianti, attraccate sulle sponde. Sono oltre 2500 (750 ormeggiate solo nel Singel) e ce n’è di ogni tipo, comprese chiatte riadattate a uffici o atelier. Il fenomeno si è diffuso a partire dal secondo dopoguerra, dopo la dismissione di molte attività portuali, e l’Amministrazione Comunale le ha rese vivibili, portando elettricità, acqua, telefono, fognature. Dalla fine degli anni Sessanta sono diventate abitazioni alternative, di tendenza o status symbol.
Ma a giganteggiare all’interno del bacino è il popolare NEMO Science Center, progettato da Renzo Piano nel 1997. Ospita il Museo della Scienza e della Tecnologia e ha la forma di un’enorme prua, di color verde rame, puntata verso l’orizzonte. Dal tetto, collegato alle banchine da un ponte pedonale, leggermente digradante e organizzato a piazza con tavoli e panchine, si gode un bel panorama della città e del suo meteo mutevole. Nei pressi c’è anche un Botel, crasi tra boat e motel.
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