E “nuovo” è pure il fatto di trovare giovani generazioni impegnate nell’agòne, alla riscoperta o alla rivitalizzazione di piccole realtà familiari, di vecchi e nuovi modi di fare agricoltura. E questo, per la terra, è un dono impagabile.
Trascorrere una giornata con loro è un privilegio e un incredibile condensato di esperienze, da cui non puoi che trarne, una volta ancora, il valore della differenza. Anzi, la “differenza che fa la differenza”. Realizzando per esempio quanto sia vario e “cangiante” qualsivoglia lembo di territorio chiantigiano, e non solo nei confronti degli altri limitrofi, ma pure al proprio interno, e questo sia da un punto di vista microclimatico che geologico, anche se qui l’orogenesi è fattore accomunante per l’intero distretto. Invece, microclimaticamente parlando, la “breccia” a ovest che apre al mare e ai suoi influssi ci ha messo sicuramente del suo nel decretare la “consistenza” delle stagioni calde e fredde e l’andamento delle fasi fenologiche della vite.
Il distretto rappresenta la propaggine più occidentale del Chianti Classico, ed è situato nel punto di congiunzione fra la piattaforma ligure e quella toscana, con la prima a infilarsi sotto la seconda, e che proprio in virtù del sollevamento tettonico e dei conseguenti depositi franosi avvenuti all’interno degli antichissimi bacini marini ha visto la stratificata sedimentazione di rocce di vario tipo, principalmente flysh e galestri. Ma non mancano rocce calcareo-marnose come l’alberese, esclusivo retaggio della piattaforma toscana, alternate a sabbie e arenarie. Caratteristica del distretto è la presenza nel sottosuolo di argille blu, una presenza che limita gli effetti dello stress idrico nel caso di stagioni particolarmente siccitose.
Invece, il corridoio del Monte Serra, fra Lucca e Pisa, consente l’ingresso dei venti di maestrale provenienti dalla costa tirrenica, propiziando inverni più miti ed estati più fresche e ventilate rispetto al mainstream chiantigiano, con la prima condizione a favorire germogliamenti precoci, e la seconda ad agevolare maturazioni più lente, tutti segnali che porterebbero a indirizzare i vini a base sangiovese sulle frequenze ambitissime di una ricercata eleganza.
Il focus di un giorno ha preso a riferimento la vendemmia 2019 (salvo due o tre casi), traguardata attraverso i Chianti Classico “annata”. Non i Riserva quindi, né le Gran Selezioni (solo 1 eccezione, ma giustificata). Da un certo punto di vista, se vogliamo, l’angolazione migliore per inquadrare un territorio e testarne le potenzialità, costituendo solo in apparenza uno sguardo “dal basso”, quando in realtà fai presto a comprendere che è proprio lì che spesso dimora la cifra distintiva, in barba alla teorica scaletta che proporrebbe la tipologia “annata” alla base della piramide qualitativa chiantigiana. Ma questo è un altro discorso. O un altro ginepraio, a seconda dei punti di vista.
Se stiamo invece ai flaconi assaggiati, due o tre considerazioni nel merito saltan fuori, perché qui si passa dalla ingenuità alla consapevolezza, dove da un lato, quando va bene, l’ingenuità porta con sé schiettezza, sincerità e mancanza di orpelli, ciò che fa il paio con una sana bevibilità, autentico baluardo di un bere tipicamente chiantigiano; quando va meno bene può farsi veicolo di approssimazioni, rusticità o goffaggini.
Dall’altro c’è la consapevolezza, che può essere adeguata o “abbondante”. La consapevolezza ha il potere di accompagnare i processi per rendere più coerente l’obiettivo con i propositi; per esempio ponendo in giusto risalto uno stile interpretativo, oppure l’aderenza di un vino al territorio da cui discende, e quello sì che è un gran risultato. Puoi sentire allora che il cerchio si chiude, e l’eleganza si fa più eleganza, con i connotati di nitidezza, integrità, equilibrio e dettaglio ad assumere pieno significato.
Quando però la consapevolezza eccede, la “confezione” tende a comprimere l’espressione e a veicolarla, erodendo disegno ed articolazione a favore di un qualcosa che toglie spontaneità, creando sovrastrutture e al contempo alimentando un senso di deja vu o di omologazione.
Ecco, la luce sta proprio nel mezzo, fra l’ingenuità e la piena consapevolezza. Ma, ciò che più conta, quella luce c’é, esiste e può costituire un patrimonio invidiabile di condivisioni e possibilità.
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I VINI DI UN GIORNO (in stretto ordine di apparizione)
Polposo e accomondante, alla buona freschezza di fondo contrappone una leggibile sensazione pseudocalorica. Sfruttando appieno il contributo del merlot in termini di frutto e generosità, gioca sul sicuro presentando spigoli ben torniti e puntando a una confortevole piacevolezza.
Qui respiri purezza, “elettricità”, capacità di dettaglio. E un sottofondo minerale che slancia il profilo esaltandone disegno ed articolazione, secondo un registro espressivo più “classico” rispetto allo stile consolidato della famiglia Davaz. Ai massimi livelli.
Fedele al risaputo temperamento dei vini della casa, sfodera una grinta fondata su solide basi acide e strutturali, che in questa fase evolutiva non ne consentono semmai un’adeguata distensione. L’annata in gioco va assicurandogli però il giusto grado di contrasto, mentre lui è lì che spinge e sbuffa, con il tannino a mordere il freno e l’impianto dei sapori a richiamare una ferma austerità. Chiede tempo, gli va concesso.
Succoso, spontaneo, molto naturale nello sviluppo, pur non avvantaggiandosi di una persistenza importante sfrutta a suo favore la spinta minerale sottocutanea, risultando quanto mai garbato e autentico, sfrondato com’è da eccessi e impalcature. Bene!
Morbido e carnoso, con il frutto in evidenza e con rivoli più dolci in qualità di lasciti del rovere (ancora in via di assorbimento), si offre secondo uno sviluppo non così disinvolto, quasi fosse ancora alla ricerca di una maggiore trasparenza espressiva.
Slanciato e luminoso, succoso e contrastato, è una freschezza vivida che lo fa letteralmente librare, portando in emersione sottotraccia e mineralità. Grande conseguimento, e un rigore persino amplificato rispetto al suo solito.
Trasmette una suggestione di purezza e di assenza di orpelli. Il cemento, per l’occasione contenitore di “elevaggio”, lo percepisci negli umori di fondo e in quella piacevole rugosità tattile. E’ dritto, longilineo, stilisticamente connotato, dal profilo affusolato ma non affilato.
Il proverbiale rigore di Quercia al Poggio si manifesta con il cipiglio austero e con una decisa presa tannica, corroborati da una forte corrente di acidità. Tutte asprezze “buone” per il futuro che viene, nell’attesa -ben riposta- che il nostro possa assumere un andamento più disteso e concessivo.
Sbuffi eterei, con il frutto che svapora all’aria come fa un tubetto di tempera, e poi quella trama calda, morbida, avvolgente, pura, che sa unire frutto e solarità in compendio armonico, e per questo si fa apprezzare.
Sia pur classico nell’impianto dei sapori, la latenza in propulsione tende a fargli assumere un’indolenza quieta e un andamento placido, su concessioni aromatiche leggermente evolute e rivoli di sapore più “dolcini”. Con il dubbio residuale di essere incappati in una bottiglia imperfetta.
Instradato da una forte corrente di acidità, il ritmo e la tensione ce li ha proprio nel sangue. E’ succoso, nitido, preciso, semmai non ancora adeguatamente sciolto & disinvolto. In chiusura appare coerentemente fresco e affilato, ma sa sfumare con garbo.
Non c’è niente da fare, quel coté esotico (nel senso della frutta esotica) nel registro dei profumi tende a connotare fino alla distinzione i vini della Paneretta, quantomeno nei primi anni della loro parabola vitale, con il profilo gustativo che di contro va a muoversi nello stretto crinale della crudezza erbacea, aspetto qui fortunatamente disatteso. Il vino è ricco, sicuramente dotato, sicuramente sui generis.
Fatica un po’ ad acquisire articolazione e modulazione nei toni. E’ ricco, polposo ma poco risolto nel disegno e nella cura del particolare (leggi dettaglio). La scocca c’è, a mancargli semmai sono le rifiniture.
Intensamente profumato, grazie alla presenza scenica traduce da par suo un’idea di sensualità, concedendo forse fin troppo agio al volume e all’abbraccio del frutto, ciò che rende al sorso una formosa avvenenza la quale, senza peraltro risultare sgraziata, non offre particolari abbrivi alla disinvoltura.
E se l’intreccio dei sapori non ti porta d’istinto sui lidi della più filologica delle tipicità, lo sviluppo largo ed “orizzontale” accorda spazi agli accenti tostati e tabaccosi, mentre alla dote tannica chiederesti più finezza.
Possiede i connotati del Chianti Classico, come la versatilità e la sincerità. Resta però ai margini, senza scavare in profondità il solco della distinzione. Insomma, deve recuperare una frazione di carattere, anche se i fondamentali ci sono, senza inutili “pruriti” da primattore.
Il territorio lo senti nella freschezza di fondo, nell’attitudine alla reattività, nel sale che ha in corpo. I tannini in eccesso e l’influsso del rovere appaiono invece come il retaggio di un approccio stilistico non propriamente sfumato.
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