L’equazione errata “vino poco concentrato = vino facile da bere” continua a inquinare le menti degli enofili, perciò continuo a mia volta nel tentativo di demistificarla. Troppe lezioni frutto dell’esperienza si danno per scontate, il torto di molti commentatori è di non ribattere sui concetti di base affinché diventino patrimonio condiviso.
Per convinzione maturata o per sfinimento degli interlocutori.
Se noi bevitori ci comportassimo tutti così, come un sol uomo (una sol donna, un sol gender fluid, un sol nonbinary: come vi pare) a puntualizzare quando qualcuno – per esempio – ci serve un Dolcetto a 25 gradi di temperatura, magari guardandoci con compatimento alla successiva richiesta di un seau à glace per raffreddarlo, non ci troveremmo prossimi all’estate 2023 con lo stesso problema di sempre.
E dunque, o bevitori: se un rosso ha il colore di un rosato e l’estratto secco di un bianco di montagna, non è necessariamente un vino facile da bere. Se simmetricamente un rosso è color melanzana/pece, e ha la struttura di tre Barbera messe insieme, non è necessariamente un vino pesante da bere.
Tutto dipende dal suo disegno, dalla sua cinetica interna, dalla sua agilità. Dalla sua capacità di muoversi, e anche meglio di correre, e anche meglio di danzare, e anche meglio di volare. I vini più straordinari rimangono quasi in volo librato in bocca; il che peraltro torna utile nelle riunioni conviviali, dal momento che lasciano libera la lingua e consentono una normale conversazione a tavola anche prima della deglutizione.
Questo carattere del vino, ovvero la libertà di muoversi agilmente a corpo nudo, è decisivo. Libero e agile, senza le costrizioni di abiti più o meno fascianti: le camicie di forza del rovere nuovo, le cotte medievali (in ferro) dei tannini sovrabbondanti, i cappotti fantozziani (con resistenze elettriche) dell’alcol in eccesso. C’è un ulteriore sottoinsieme in questa – per fortuna sempre più diffusa – tipologia, quello dei “vini di sete”, come li chiamano i francesi, i vins de soif.
Più di un decennio fa scrivevo in proposito: “Già che ci siamo, il solito ritornello: attenzione a non confondere la pienezza strutturale con la pesantezza tout court. Un “vinello” poco concentrato ma alcolico e surmaturo è più difficile e noioso da bere di un vino molto potente, ma agile e dal finale rinfrescante. Scritto questo, non c’è dubbio che alcuni vini siano eccezionalmente gustosi e beverini; che siano cioè anche dissetanti: vins de soif, stando alla definizione gallica. Insomma, dei vini che fanno della bevibilità una caratteristica peculiare e irresistibile, di una forza attrattiva quasi magnetica per chi può berne impunemente la sera al ristorante grazie alla favorevole circostanza di poter tornare a casa in taxi o accompagnato da qualcuno che guida.”
Certo, non tutti i vini straordinari sono vins de soif. I vins de soif si rischia di tracannarli, più che di berli e basta, e non stimolano in genere alcun esercizio interpretativo. Anzi, rifuggono all’idea di essere scomposti, analizzati, valutati criticamente. Sono vini privi di pensiero.
In certi momenti della giornata sono più necessari di qualunque altra cosa, aria esclusa. Come una bella birra lager ghiacciata*, costituiscono un argine naturale ai mille insulti del vivere.
E non occorre esercitare alcuna facoltà critica per goderseli.
* banale quanto si vuole per l’esperto di birre craft
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