Classe 1983, nato a Tregnago, Luca Anselmi nasconde la tensione del perfezionismo dietro un’apparenza paciosa e bonaria: ha una forma mentis metodica e classificatoria che gli arriva dagli studi scientifici.
«Sono entrato in azienda nel 2003 dopo il diploma di perito agrario, affiancando mio padre per una decina d’anni e rilevando poi la gestione. Mi sono laureato in biologia molecolare a Padova – al tempo, parliamo del 2006, era all’avanguardia – facendo avanti e indietro perché lavoravo in campagna, frequentando poi un corso di genomica funzionale a Trieste, dove sono arrivato alla frontiera della biologia e della medicina». Per chi non lo sapesse (ho guardato anch’io su Google), la genomica funzionale è “una sotto-specializzazione della biologia molecolare che permette l’esplorazione della funzione genica e proteica non solo a livello genetico ma anche su scala genomica”.
«Era talmente all’avanguardia che nei due anni di specialistica non ho studiato sui libri, ma solo sugli articoli. Ci ho messo un anno per la tesi di laurea in microbiologia enologica. Ho effettuato l’estrazione fisica nell’nmra o nra messaggero dalle cellule di Oenococcus Oeni. Nel 2010 era l’esperimento più avanzato a livello mondiale per questo batterio responsabile della fermentazione malolattica, che per me non è secondaria a quella alcolica, anzi talvolta è più importante perché conferisce morbidezza al vino».
Luca ci ha dovuto sbattere, e non poco, la testa per l’applicazione richiesta.
«È stato un percorso difficile che mi ha formato. Come produttore ho un approccio scientifico. Ci metto un anno a fare gli assemblaggi: devo avere la mente sgombra, è come uno studio. Potevo fare l’enologo ma ho preferito andare oltre. Ho estratto per tre volte di fila l’nmra da cellule di batterio, definendo nuovi protocolli. Questa estrazione la fai, non la studi. È qualcosa che va oltre ed è stato difficile, impervio, qualcosa ai confini della conoscenza. Avevo una formazione tecnica, non scientifica e queste esperienze mi hanno messo a dura prova, ci ho rimesso un po’ di vista e di salute. Dopo la laurea per sette anni non ho più toccato un libro di scienza perché mi sentivo esaurito».
Falezze, la sua creatura, si estende in Val di Mezzane, nella Valpolicella “estesa” (un tempo definita “allargata”), per quattro ettari vitati, più uno di bosco e uliveto, a certificazione biologica, posti tra i 200 e i 250 metri di quota. I suoli sono drenanti, calcarei, moderatamente alcalini, dalla tessitura argillo-sabbiosa nella parte più profonda. Gli impianti, a pergola veronese e pergola trentina, hanno una pendenza variabile, che in alcuni punti, come nella parcella delle vecchie viti di ottant’anni, arriva anche al 30%. «Il nome dell’azienda deriva da quello locale di una pianta primitiva cuneiforme, l’equiseto, che vive in zone umide, vicino ai ruscelli, e che viene usata, dopo averla fatta essiccare, come cicatrizzante».
La prima annata imbottigliata è stata la 2008. «Nel 2007 la grandine mi ha portato via tutta l’uva, era destino che cominciassi l’anno dopo». Il 2008 è anche l’anno della costruzione della cantina, cui segue nel 2010 quella del fruttaio («per me l’appassimento è una delle cose più importanti, il professor Ferrarini mi aveva proposto una tesi sull’argomento, ma ho rifiutato perché non aveva dottorandi che potessero assistermi»), mentre ora fervono i lavori per il bio-agriturismo.
Tutte le bottiglie hanno un sigillo di garanzia («oltre alla fascetta della denominazione aggiungo una numerazione a mano») e si fregiano delle sensuali etichette – figure femminili disegnate con tratto stilizzato e contorni sfumati che virano al porpora – firmate dalla moglie georgiana Sofia Kherkeladze, pittrice figlia d’arte (il padre è Niko Kherkeladze, nel 2010 vincitore del primo premio all’esposizione internazionale del Carrousel du Louvre) e fashion designer.
«Così si evita lo stress dell’imbottigliamento. Il mio vino ha bisogno di stare in recipienti grandi. Se l’avessi imbottigliato nel 2019, sarebbe ancora crudo mentre dopo tre anni in acciaio è un vino completo e fresco. Prima di commercializzarlo gli faccio fare un anno in bottiglia: all’inizio il vino si stressa, ma meno degli altri per il lungo stazionamento in acciaio, e in breve tempo ritorna allo stato originario. Ho capito nel 2017 che avrei dovuto fare così. Sono decisioni che vengono con l’esperienza. Ci ho messo dieci anni a trovare i bicchieri per i miei vini».
Il 2017 è l’annata attualmente in commercio: qui nulla viene lasciato al caso e la cura del dettaglio, di ogni dettaglio della vinificazione, è la chiave di volta. Il vino ha colore rubino rigoglioso e brillante, profumi di erbe e di ciliegia, un corpo pieno e slanciato, un tannino sottile e insinuante, un frutto espressivo, appagante, una persistenza di erbe fini e 14,5 gradi alcolici perfettamente incorporati.
«Viene fatto per 7/10 giorni. Non bisogna scaldare troppo la massa, soprattutto se c’è poca solforosa, e io ne uso sempre pochissima perché ne sono allergico: in questo vino è sui 50/60 mg/l di totale, nell’Amarone è addirittura a 30! Usandone poca sono più scoperto, e quindi se scaldo troppo la massa rischio di contrarre dei batteri acetici. In cantina non uso niente di chimico tranne un po’ di metabisolfito. Lavoro con lieviti biologici certificati (cosa rara), sono lieviti in crema, come quelli del pane, non in polvere, è un lievito sempre vivo, magari mezzo addormentato, ma mai morto e liofilizzato. Questo lievito mi dà la possibilità di schiacciare l’acceleratore o alzare il piede, portare la temperatura fino a 35 gradi o rimanere a 21, e questo perché lo conosco bene. E la fermentazione non si blocca. Il lievito produce calore e quindi devo equilibrarlo con il freddo, deve essere bilanciato, non farlo andare in stress, tenere l’equilibrio, lui sa che sta andando verso la morte ma alimentandolo correttamente si riesce a mantenerlo in vita e invece di alcol etilico produce più glicerina, di cui i miei vini sono ricchi».
Il vino ha colore rubino intenso e brillante, e un naso un po’ in riduzione.
«È dovuta alla vinificazione. Il vino ha bisogno di ossigeno nelle sue varie fasi di vita e l’ossigeno è attivatore di reazioni chimiche (ossidazione) e biologiche (proliferazione di batteri, tra cui l’acido acetico, batterio aerobico). In cantina bisogna dosare l’ossigeno con i rimontaggi. La 2016 è stata un’annata calda e il vino aveva bisogno di più ossigeno rispetto a quello che gli ho dato e non gliel’ho dato perché l’ossigeno presente era alto e rischiavo la fermentazione acetica. Avrei dovuto usare più metabisolfito: ho preferito rischiare e mi sono tenuto la riduzione. Ho scelto la salute, la salubrità». Il timbro olfattivo è ferroso. «Questo è un vino diverso dagli altri che ho fatto». Per contro, il palato sfoggia succosità e naturalezza, un crescendo di erbe, verbene e rabarbari, un carattere selvatico – raro a sentirsi in un Ripasso –, dinamico, saporito, teso, di lunga persistenza.
Ha colore porpora intenso, profumi di prugna confit, frutta rossa candita, sfumature balsamico-cioccolatose. La bocca è densa, avvolgente, un sortilegio di dolcezza, alcoli e aromaticità, una coccola balsamica e fruttata, con un finale, confortato da un tratto più asciutto e da un tannino incisivo e raffinato, dall’invitante “effetto Boero”: ciliegia sotto spirito e cioccolato.
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