Il critico accetta, il critico va, il critico incensa ‘gnicosa con linguaggio forbito, il critico “attacca l’asino dove vuole il padrone”. E il padrone si gongola, fiero del fatto di essere riuscito a convincere quel critico famoso a svolgere un ruolo di ufficio marketing deluxe, di “certificatore della qualità” indipendentemente dalla qualità.
Poi, in seguito, ritornando nei suoi panni consueti, non so dirvi se quel critico, di fronte ai vini di quell’azienda, conserverà misura e imparzialità oppure se il suo occhio, che già una volta ha chiuso, lo chiuderà un’altra volta, restituendo ai lettori e ai consumatori giudizi oltremodo lusinghieri, generosi, sbracati o volgarmente di parte. Non so dirvi dei rigurgiti di coscienza. Gli indizi però non conducono a niente di buono.
Che poi è soltanto la conseguenza di quel gesto originario: è quel gesto là ad aver generato la vezza sulla superficie lucida dei comportamenti.
Nel frattempo io, che so di appartenere alla vituperata schiera ( dei critici, non dei certificatori di qualità a comando), misuro per intero la mia crescente inadeguatezza. Mi sento un rigurgito ottocentesco buttato nella centrifuga di un mondo che ha altri valori. Eppure so che esistono porti franchi, e che la critica esige e chiede libertà. E’ grazie a queste convinzioni che mi ostino a resistere.