Post di nicchia per vini (BIO) di nicchia. W la nicchia

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Apprendo e mi perplimo, nel leggere il recente articolo apparso su Repubblica dal titolo perentorio, sensazionalistico e sintatticamente scorretto: ” Vino: è bio un vigneto su cinque ma i consumatori non lo comprano” (leggi qui ).
Che già lì vien da chiedersi : “cosè che non comprano, il vino in sè per sè?”. Vabbé, lasciamo perdere l’ardore perfezionista di un revisore di testi quale io sono, e andiamo al cuore del discorso… e il cuore del discorso testimonierebbe (dati alla mano, i loro dati alla mano) che nonostante il 20% del vigneto Italia sia condotto secondo i dettami della agricoltura biologica (certificata), tutto questo bendidio di propositi e di gesti virtuosi si tradurrebbe oggi in un quota risibile di venduto, in Italia e nel mondo.

Ecco, avete presente quando avete la sensazione di aver visto un altro film, fino ad ora? Questa la sensazione prevalente di fronte alle sentenze dell’articolo.
Da non crederci, cosa peraltro che mi ostinerò a fare. Non crederci.

Di più, con una discrepanza da registrarsi fra superfici vitate in regime bio e vini marcati bio, perché sembrerebbe che il viticoltore italiano non sia propenso ad estendere la certificazione al vino prodotto ( vino biologico, per l’appunto), per fermarsi all’agricoltura biologica (vino ottenuto da uve da agricoltura bio), un dato che se risultasse avvalorato e veritiero porterebbe a una salutare discussione nel merito.

Perché la rivoluzione è in atto, ecche diamine, nelle campagne d’Italy, e io continuo a sognare una rivoluzione di coscienze così forte da farsi mainstream.
E se così non fosse, perché così ancora non è, io mi accontento, sostenendo che se per una volta, nella storia della agricoltura contemporanea, un imprenditore agricolo intravvede in una pratica più rispettosa ed epurata dalla chimica un nuovo orizzonte di business, ben vegna, cazzo, se ciò può portare beneficio alla terra e agli equilibri ambientali.

E il salto sul carro del biologico di un numero sempre crescente di aziende strutturalmente e dimensionalmente importanti farebbe propendere per una china e una direttrice chiara, che apre all’incremento delle superfici vitate in bio e qundi a un presumibile, conseguente aumento della quota di venduto, e non al contrario, ché sennò questi imprenditori qua col cavolo che si muoverebbero in tali àmbiti.

Beh, certo che se stiamo agli interventi in virgolettato degli esimi esponenti della nomenclatura istituzionale di comparto ( UIV e ASSOENOLOGI) chiamati in causa dall’articolista per dare il “taglio morale” all’articolo tutto, parrebbe che l’agricoltuta bio sia una bolla di sapone in prossimità dello scoppio, che da un lato verrebbe praticata per poter attingere a sovvenzioni statali a fondo perduto per ogni ettaro gestito in biologico (che c’è di male? uno stato che incentiva pratiche green ed epurazione dalla chimica fa cosa buona, pulita e giusta), quindi per mero tornaconto economico; dall’altro – peggio ancora – i vini bio non riscontrerebbero il successo commerciale atteso, perché la ggente, con due g, non guarda al marchietto, ma al prezzo (che sia congruo con le proprie possibilità di acquisto), conscia del fatto che un prodotto può piacere indipendentemente dalla presenza o meno di un attestato che ne sentenzi le virtù. Anzi, qui si sottintende -manco velatamente- che il bio non rappresenterebbe (più?) un incentivo all’acquisto.
Quindi ad oggi resta un “fenomemo di super nicchia“. Così sostengono a Repubblica. Così non lo è più, verrebbe invece da pensare a me.

Certo poi che la frase affossatrice del presidente ASSOENOLOGI chiarisce bene il costrutto: ” la viticoltura bio è nobile nelle intenzioni ma problematica nei fatti. E’ come se uno dicesse: ho un virus, bevo il latte“.

Resterà negli annali, quantomeno nei miei.
Merita un commento? Non creto, direbbe Razzi/Crozza.

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FERNANDO PARDINI

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