Per quanto riguarda gli altri vini, forse le parole loro dedicate nelle note di degustazione che seguono faranno intuire di già le mie predilezioni. Comunque sia, tanto per approfondire, ritengo imbattibile la classe di Cheval Blanc, che ancora una volta riesce ad assumere una grazia aromatica, una flemma ed una aristocraticità che restano appannaggio di pochi vini al mondo (e alla cui riuscita non credo sia secondaria l’importante quota di cabernet franc) . Nessuno più di lui, in questo consesso ristretto ma significativo, è stato capace di esprimere una mineralità così profonda, una interiorità così sfaccettata, e tutto questo senza dover rinunciare alla istintiva complicità di un bere amico. Delicato e struggente, con una fisionomia candida e “féminin”, Pichon Longueville Comtesse de Lalande, oltre a possedere uno dei nomi del vino più “musicali” di sempre, si candida al podio con una prova che se da una lato mette in risalto la sua sostanziale gioventù, dall’altro sfodera l’incanto che attiene ai vini non sbandierati, quelli che fondano sul contrappunto, sul chiaroscuro, sulla bella “nudità” la loro ragion d’essere. Su tutt’altro piano, per via della verace umoralità, si muove Léoville Barton, che pare aver cambiato negli anni la sua fisionomia giocando oggi più di potenza che non di sfumature, ma che anche in questa annata ci fa intuire il privilegio di provenire da un terroir elettivo, che contribuisce da par suo a far nascere/crescere uno dei migliori cabernet sauvignon di Bordeaux. Buon vino anche Chateau Figeac, un solido bordolese che ha la giusta prestanza e la giusta dose di austerità da rendere ruggenti gli anni suoi giovanili. Molto carattere anche qui insomma, anche se siamo distanti dalla finezza espressiva di Cheval Blanc (tanto per parlare dei due St Emilion presenti). Un gradino più sotto ci stanno gli altri vini, con un Cos d’Estournel molto in stile Cos, giocato cioé sulla estroversione fruttata, su una certa “convinta” estrazione tannica, su una presenza scenica che, sia pur non ridondata, riflette un po’ di più i canoni della “contemporaneità” enologica oggi tanto in voga a Bordeaux e dintorni (qui frutto, colore, morbidezza e dolcezza amano rivendicare la ribalta), e con un Chateau La Sergue rotondo e ben congegnato, che fa della “confortevole accoglienza merlottata” la sua chiave di lettura più manifesta, anche se la complessità non raggiunge quella dei vini di “stampo” superiore.
Quel naso “charnu”, pieno, espressivo e compatto, con la confettura dei frutti rossi d’ordinanza in prima linea, il soffio alcolico in seconda, l’odor di elicriso a chiosare e neanche un’ombra di vegetalità, richiama a piene nari lo stile Cos. Al palato ha sviluppo coordinato, grip ed espansione. Per un vino tanto caloroso e spigliato, oltre che tecnicamente “pensato”, solo la “ripidità” tannica ne accorcia oggi gli allunghi e ne rende meno dinamico e flessuoso il finale, rivelando sotto la coltre una grana non finissima.
Intrigante, minerale, nobilmente speziato, austero, sicuro di sé, offre finissima trama aromatica, coinvolgente e sfumata, da “ascoltare” ancora e ancora. Grande nonchalance se lo bevi: ci stanno allungo, melodia gustativa e stoffa buona. Un vino di razza, non c’è che dire, di garbo esclusivo ed eleganza superiore.
Qui un naso conciliante ed assertivo, giocato sui conforti delle evidenze fruttate più esplicite. Estroverso, marmellatoso, pieno, è un profluvio di more e ribes di buona balsamicità. La bocca è polposa, di impronta “merlottata” manifesta, quindi piacevole sia pur priva di un carattere distintivo. Nello sviluppo mantiene misura e coordinazione per una complessità che sa farsi discreta. Insomma, un vino rotondo e gradevole con qualche cliché.
Reminiscenze vegetali, note cuoiose e animali, qualche impuntatura olfattiva e una iniziale riduzione fanno di quel naso un naso non propriamente scolpito ed armonioso, eppure non ledono all’agilità e al carattere. Con l’aria, rassicurante si fa l’apertura aromatica, che contempla una florealità sottile e seducente solcata da una balsamicità via via più incisiva. Lo sviluppo gustativo è nervoso, teso, senza fronzoli, con tannino ancor che morde; sento l’energia buona, la freschezza acida della gioventù e anche un bel tasso di nobiltà territoriale, ciò che mi par di cogliere nella fisionomia decisa e austera con cui ti presenta il conto.
Le iniziali note di frutto maturo non ledono poi tanto all’intrìco olfattivo, speziato e vegetale nella sua essenza, con umori di erba tagliata che via via si fanno spazio. Bocca di marca ancora vegetale, “pungente” senza essere sgarbata, solo forse non così propensa a scavare in profondità i suoi pertugi. L’ equilibrio complessivo appare buono, la freschezza confortante, l’integrazione tannica calibrata. Sento però la gioventù del vigneto, ineludibile, a limare spessori e persistenze. Non la godibilità però, dacché quest’ultima è già adesso una dote certa.
La rusticità olfattiva della prim’ora (leggi punta di brett) annuncia carattere ma non finezza. Cuoio e pelliccia non mancano davvero. La bocca, di contro, ha una spinta e una freschezza conclamate, per uno sviluppo modulato e di buon sapore, molto meglio che non quel naso. Finale asciutto, austero, altezzoso e flemmatico, a disegnare i contorni del vino autorevole (o con gli attributi, potremmo anche dire), di un vino cioé che ha perso forse la leggiadria di un tempo ma non la personalità e la voglia di emergere.
Naso iodato, salmastroso, minerale; gioca di finezza e sottigliezze, regalando una composizione aromatica vegetale complessa e ben integrata di erbe selvatiche, spezie fini e balsami, sulla quale va ad innestarsi una sensazione fruttata, candida e matura, di fragola selvatica. Ottima la tessitura al palato per uno sviluppo profilato e trascinante, dall’acidità pervasiva. C’è equilibrio e charme, e una bocca che fila via diritta senza lasciarsi alle spalle (o sulle spalle) una idea di peso o volume. Sapida e bella, è un “soffio” melodico di rinfrancante naturalezza espressiva.
Assaggi effettuati a Suvereto il 29 novembre 2007
Foto: la cantina di Petra vista da diverse angolazioni; Pascal Chatonnet; foto di gruppo in un interno (io sono ben nascosto); Vittorio e Francesca Moretti.
penso che i vini da “comparare” con i francesi debbano essere del territorio pisano e non della Val di Cornia.