Partiamo dalla luce. Ho conosciuto il Carso e i suoi vini in un seminario di Sandro Sangiorgi, nella sede romana di Porthos. Il titolo della serata, evocativo ed azzeccato come sempre, era: “La supremazia della luce”. Da quelle parti, l’inclinazione dei raggi del sole colpisce le foglie e i grappoli in maniera molto particolare: <<[…] è come se l’atmosfera sull’altopiano non avesse filtro>>, disse Sangiorgi, <<permettendo alla luce di arrivare alla pianta in maniera più diretta e fresca>>. In genere, siamo un po’ tutti portati a ritenere che l’uva maturi grazie al calore, ovvero all’energia termica, mentre è forse più corretto asserire che il frutto della vite si sviluppa e matura grazie soprattutto alla luce. Il calore è si importante, perché è il responsabile dell’aumento della concentrazione degli zuccheri (e quindi dell’alcol). Però ha un effetto degradante sull’acidità. <<La luce invece agisce sulla “qualità” dell’acidità, sia dal punto di vista “sensoriale”, con una sensazione più prolungata e vibrante, sia “biochimica”, con effetti positivi sulla conservazione del vino e sulla sua capacità di evoluzione nel tempo>> . C’è infatti una stretta relazione tra l’inclinazione dei raggi solari e l’escursione termica quotidiana, così preziosa nelle ultime settimane di maturazione dell’uva: con escursioni termiche maggiori aumenta il periodo attivo di fotosintesi, l’attività vitale della pianta, e con essa migliora la composizione fenolica e si sviluppa la complessità aromatica. A patto però che si protegga il grappolo dalla eccessiva “cottura”, utilizzando il giusto sistema di allevamento (ciò spiega come mai nel Carso, ad esempio, sia ancora molto diffusa la pergola, capace di limitare gli eccessi di luminosità e calore).
L’ultimo elemento è la terra. Il Carso è una sorta di enorme ammasso calcareo emerso dal mare decine di milioni di anni fa. Al piano più antico del fondale marino si sono poi aggiunti strati e strati di calcare di origine organica (gusci e scheletri degli animali) che i movimenti della terra hanno poi portato in superficie. Qui, sotto l’aziona lenta e incessante degli agenti atmosferici, è iniziato un fenomeno inverso: le rocce calcaree, formate prevalentemente da carbonato di calcio, sotto l’azione di acqua piovana e anidride carbonica si trasformano in bicarbonato, assai più solubile. Nel tempo sono state così modellate, disegnate, scavate, dando origine alle tristemente note foibe (che sono vere e proprie voragini più o meno profonde), alle doline (depressioni del terreno a forma di imbuto) e a tutta una serie di grotte sotterranee. Nel complesso si tratta di una terra arida, congenitamente incapace di trattenere l’acqua, dove la roccia madre affiora ovunque: le piante devono fare una fatica terribile per nutrirsi ed hanno sviluppato un apparato radicale fuori dal comune. Solo nel fondo delle doline la vite trova un ambiente più favorevole: qui infatti l’acqua accumula tutti i residui di argilla, non sottoposti ai processi di corrosione chimica, dando origine a una terra rossa molto fertile, ricca di microelementi (soprattutto ossidi di ferro), meno permeabile e in definitiva assai adatta alla coltivazione (almeno nelle parti meglio esposte, laddove sono contenuti i fenomeni di inversione termica,che porta la temperatura a scendere anche di 10-15 C° in pochi metri di dislivello).
I vitigni più rappresentativi sono tre: malvasia, terrano e vitovska.
La malvasia (sempre per dirla alla Sangiorgi) è un vitigno di talento, con una forte connotazione territoriale, capace di dar vita a vini fini e ricchi allo stesso tempo. Quella “istriana” – pur appartenendo alla famiglia delle malvasie diffuse in Italia centrale – è tuttavia un vitigno a sé: coniuga un’anima mediterranea alle vibrazioni di un’acidità più “nordica”. Pur conservando un corredo odoroso importante, è meno dolce ed aromatica delle malvasie classiche, e al profilo floreale e speziato aggiunge di solito una nota minerale salina, marina, tratto comune a molti vini di queste zone. Predilige il “costone carsico” oppure i terreni calcarei dell’altopiano, dove da vita a bianchi di profonda sapidità, energia, e presenza gustativa.
Il terrano è il rosso autoctono della zona, anche noto come “sangue di lepre” o “sangue del carso”, a causa del colore particolarmente concentrato. Imparentato da vicino con il refosco dal peduncolo rosso, è un vitigno abbastanza esuberante, che sembra prediligere i terreni rossi e ferrosi delle doline. Il vino che ne deriva è piuttosto asciutto, essenziale, con pochi tannini, grande carica acida e una mineralità ferrosa molto netta (in passato, ad esempio, era consigliato come “integratore” alle puerpere). E’ sempre stato concepito come un vino fresco da bere giovane, per cui ancora non ne sono state esplorate a sufficienza le potenzialità evolutive.
La vitovska, infine, è l’uva più caratteristica della zona. Prodotta solo nel Carso, resiste bene alla bora e alla siccità, e si trova a suo agio sia sui terreni calcarei che su quelli di terra rossa. Sempre Sangiorgi la descrive come <<un’uva neutra, la cui principale caratteristica è la minuziosa abilità nel leggere i dettagli dei luoghi che abita, restituendone la sintesi minerale, senza lasciarsi sfuggire le condizioni dell’annata>>. Vini quindi molto minerali, rocciosi, di grande vigore, sovente con un discreto patrimonio tannico dovuto alla frequente macerazione sulle bucce.
Nel corso della serata in Abruzzo ho assaggiato i vini di Beniamino Zidarich, come rappresentante del carso italiano, e di Marko Fon e Marko Tavcar, per la Slovenia. Chiudo allora questo excursus con alcune note su queste aziende e sui loro prodotti.
Zidarich
Marko Fon
Marko Tavcar
Non conoscevo Tavcar e i suoi vini, ma vista la “raccomandazione” spontanea e sincera del collega Fon mi sono fidato ciecamente ed ho inserito molto volentieri il suo Terrano 2006 come contraltare a quello di Zidarich. Rispetto a quest’ultimo il vino di Tavcar parte con qualche incertezza sotto il profilo olfattivo, con note di riduzione che coprono un po’ i profumi. Poi però esce alla grande e rivela tutta la sua territorialità: sangue, terra, ferro, odori che rimandano al 100% al Carso! Asciutto, essenziale, in bocca ha un’acidità netta, che lo rende molto fresco. Lo abbiamo provato su un classico gulasch ed ha funzionato alla grande!
(P.S.- Le immagini utilizzate nell’articolo sono tratte da Google Maps, fotografieitalia.it, lastanzadelvino, ambienteepaesaggio2000)