Sulla statale che corre placida lungo la Gironda, nella speranza improbabile di riannodare attorno a sé i gangli sparsi e timidamente vitali del Médoc più profondo, Arcins spunta dal nulla e nel nulla ritorna volentieri dopo solo qualche centinaio di metri. Un pugno di case chiare fra Margaux e St Julien. Lì però dimora uno dei rari riferimenti gastronomici del comprensorio in grado di godere di una qualche reputazione: si chiama Le Lion d’Or. Solida cucina della tradizione, concreta e terragna, realizzata e perpetrata da oltre un secolo dalla famiglia Barbier (di origini italiane peraltro!); ambiente familiare, che fa molto bistrot, spazi ristretti, da “tutti insieme appassionatamente”, chef-patron gigione e primattore (che non disdegna lo “struscio” fra gli astanti per sentir gli umori, e per farti capire il suo), vocìo ininterrotto all’interno di una sala fin troppo “affusolata”, contornata su di un lato da un grosso specchio, che più che dare profondità a ciò che profondo non è ti appare semmai come un implacabile televisore naturale sempre in onda su bagordi, smorfie buffe e movimenti di mandibola dell’infinito mondo che è solito affollare questa appartata, ma conosciuta, trattoria di campagna. Un ambiente d’altri tempi insomma, che d’istinto ho associato a sughi spessi, cotture lunghe e gibier, quali certezze assolute di una cucina antica dai gesti instancabilmente riproposti, di quotidiana e immutabile perizia, e che alla luce dei fatti ho riscoperto coerentemente intriso di sughi spessi, cotture lunghe e gibier, per l’appunto.
In questa locanda senza età, rumorosa e gioviale, si è consumato un rito simil tribale di fanciullesco godimento, alle prese con pietanze saporite, di materia tanta da riempire il piatto, richiamare il pane, strizzare l’occhio al bicchiere. Le sagome dei camerieri, tanto svelte a proporsi quanto ad eclissarsi in mezzo ai tavoli tuttallineati della sala, sembravano pescate pari pari dal set di un film che hai già visto mille volte ma di cui non ricordi il titolo (il film della vita), ciascuna con un tratto somatico saliente in grado di scompaginare l’anonimato del resto, come si addice ai grandi caratteristi: così ecco spuntare un naso incredibilmente aquilino, un capello impomatato tirato troppo a lucido per il secolo in cui ci troviamo, una gobba insistita, uno sguardo-spia, un corpo tremendamente esile, un petto prepotentemente in fuori. Tutti però accomunati dalla magrezza, esigenza obbligata se intendi muoverti senza rischiare l’incolumità tua ed altrui in un ambiente tanto stretto ( magrezza che non ti spieghi se pensi alla sostanza calorica della cucina che qui viene proposta). Ebbene, in questo caos rutilante apparentemente senza regole ma in realtà oliato alla perfezione, non avrei mai pensato di ritornar bambino. I succulenti (ma nient’affatto sgraziati) piatti della casa hanno sortito un effetto di euforia sui nostri sensi, forse fin troppo intorpiditi dalle trattenute emozioni sensoriali pomeridiane, vissute negli opulenti château dei paraggi. Fatto sta che quando si ritorna bambini non si bada alla forma. E’ il gesto che conta, è l’attimo. Quando sei bambino hai dalla tua una liberatoria comportamentale permanente. E fu così che tre compassati (insospettabili?) giornalisti enoici, pure di una certa età ( erano con me ovviamente i ciceroni Ernesto Gentili e Fabio Rizzari), si trasformarono in belve gaudenti e affamate, riscoprendo per una volta il piacere di mangiare per la voglia di mangiare, di bere per la voglia di bere.
Il vocio rimbombante nel frattempo mi aveva otturato ben bene le orecchie. Ho vissuto un’ora e passa di sordità. Sans souci. Dei miei amici, seduti di fronte a me, percepivo oramai solo i gesti e i mugugni. Mai intesa fu più felice. E mentre Fabio Rizzari, in trance agonistica, si avventava sulle incredibili crepinettes d’agneau ancora ignaro che da lì a poco avrebbe battuto il record mondiale di velocità di consumo di un piatto ( record che era già suo, ma il piatto del precedente record era un più agevole “cozze al vapore”), io non ho potuto fare a meno di pensare al fatto che l’istinto ormai non lo conosciamo più, non lo apprezziamo più. Anzi, ci forziamo continuamente a disconoscerne il portato di saggezza e di verità, tramutando i gesti quotidiani in qualcosa di più o meno violentemente artefatto, acconciato, “ammorbidito”, al punto da confonderne il senso. Quasi obnubilarlo. L’insopprimibile “volata” mangereccia di quella sera ha riscoperto un lato di noi per troppo tempo nascosto e sottaciuto. Quel posto là (e non lo sa) ci ha restituito un barlume di speranza: poter affidare la bellezza di un momento condiviso all’ingenuità di gesti insensati, senza più parole attorno, o sopra. Senza più l’imbarazzo. Le Lion d’Or – lo avrete capito – è in realtà una macchina del tempo sotto mentite spoglie. Attenti, ché a ritornar bambini è un attimo là dentro!
Nota: l’assenza di immagini della NOSTRA serata non è casuale. Perché nel frattempo siamo ritornati a casa e la vita di tutti i giorni ci ha riaffidato in sorte l’imbarazzo. Siam certi però della vostra comprensione per questa piccola, inoffensiva forma di censura preventiva.
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