FIRENZE – Nella settimana internazionale dei beni culturali ed ambientali Florens 2012, ambizioso ed articolato evento curato dall’omonima fondazione in corso fino all’11 novembre nelle sale di Palazzo Vecchio, molto spazio è riservato alle riflessioni su paesaggio, territorio e tematiche collegate, che comprendono naturalmente gastronomia e ristorazione. Anche perché effettivamente, sempre di più si sente l’esigenza di colmare lo spazio fra la gastronomia considerata “alta” e il mondo dell’agricoltura che la sostiene, anche per contribuire a ridare a quest’ultima il valore che merita, in quanto sorgente del nostro sostentamento e protagonista nella cura e tutela del territorio.
Un racconto che abbia come titolo “Dai ristoranti stellati ad una nuova filiera del gusto” non poteva cha iniziare dalla Francia, come ha fatto Christian Barrére, docente di economia politica all’università di Reims che si è molto occupato fra l’altro delle dinamiche economiche nella storia della trasformazione del cibo; che parte infatti proprio dalla cucina “aulica” francese, protagonista nelle corti dal tempo di Luigi XIV in poi, e che in quella fase storica ha generato un modello sviluppatosi poi lentamente mettendo progressivamente in secondo piano le cucine popolari, siano state esse quelle contadine o borghesi, salvo poi selezionarne magari alcuni piatti giudicati “all’altezza”. Una cucina dunque sofisticata, intellettuale, della quale si è cercata anche una codifica scientifica, oggettiva, che prescinde, disinteressandosene, dalla concretezza dei prodotti usati quindi non necessariamente locali, ma che provengono da tutto il mondo a seconda del ruolo a cui sono chiamati, e che attribuisce invece importanza capitale alla loro lavorazione, lenta, elaborata, costosa. Insomma, a quello che oggi viene spesso chiamato “tecnica”.
Dalla metà del secolo scorso questo modello mette le ali grazie alla cosiddetta “mondializzazione del lusso”, il settore di mercato che per primo ha sperimentato il fenomeno della globalizzazione. In sintonia col messaggio veicolato dalla Guida Michelin, che cessa di essere solo francese ma invade le librerie di Europa ed Asia con tante nuove edizioni, esso acquisisce infatti un forza espansiva per la sua capacità di soddisfare l’esigenza appunto di una “gastronomia del lusso” fatta di arredi sfarzosi e materie prime rare e costosissime, esemplificata al meglio dal cosiddetto “gruppo dei tre”, gli chef Robuchon, Bocuse e Ducasse che sono arrivati a sommare poco meno di una trentina di stelle Michelin in giro per il mondo, dove ognuno di loro ha aperto da cinque a dieci ristoranti. Un modello, fra l’altro, diventato internazionale e ricco di cloni nei quattro angoli del mondo.
Ma a partire grosso modo dal 1990 si registra una inversione di tendenza: il “modello francese” incontra limiti e resistenze, provocati dalle congiunture internazionali ma anche dalla scoperta di nuovi valori, dal rifiuto proprio del lusso, della sofisticazione, ai quali vengono anteposti valori di naturalità, vicinanza, identità territoriale. Dunque il modello del ristorante, sia pure pure gourmet, cambia “informalizzandosi”, fatto certificato ancora dalla Guida Michelin che introduce nuovi label come le spighe, fino ad arrivare ai casi eclatanti di chef che restituiscono le tre stelle mantenute per quasi 30 anni, proprio in nome di un “cambio di filosofia”.
Un modello nuovo ed alternativo che stavolta non trova il suo laboratorio ideale in Francia, ma in Italia e Spagna. E proprio la nuova cucina italiana, quella dei cuochi cinquantenni (ottimamente incalzati dai quarantenni), dopo aver faticosamente appreso ed interiorizzato grandi capacità tecniche, appaiono sempre più legati al proprio territorio come fonte di ispirazione e di cultura. Massimo Bottura, tre stelle Michelin all’Osteria Francescana di Modena, considerato una delle punte di diamante di un nuovo movimento di idee in cucina, estremizza il concetto: il cuoco dovrà avere le mani sporche di terra, dovrà profumare di latte, e dovrà capire quanta fatica ci vuole per produrre le materie prime su cui si fonda una cucina in cui il pensiero è posto al vertice di una piramide, con la tecnica al servizio delle materie prime subito sotto. E sarà proprio grazie al pensiero che si riuscirà, dai sapori del piatto, a ricostruire, visualizzare quel territorio da cui provengono i suoi elementi costituenti.
È così che si arriva alla conclusione ideale di un Marco Stabile, quarantenne chef all’Ora d’Aria di Firenze, che è riuscito ad accapararsi piccole partite di ceci e fagioli da ostinati contadini difensori di varietà in via di estinzione, ed aspetta con rispetto di avere l’idea giusta per valorizzarli al meglio, evitando magari di metterli accanto ad una (pur rispettabilissima) bistecca. E li userà per raccontare la sua storia, i racconti della nonna contadina e i profumi del bosco respirati col padre taglialegna.
Dallo sfarzo e dal lusso, al chilo di fagioli strappati alla terra: l’alfa ed l’omega del lungo percorso che ha segnato il pensiero gastronomico.
Nelle immagini: Christian Barrére, Massimo Bottura, Massimo Bottura e Marco Stabile
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