La (in)sostenibilità della produzione del cibo protagonista del Barilla Forum for Food and Nutrition

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Il cibo sta al centro della Storia? Certo, per i gourmand ricercatori di leccornie o per i ghiottoni gourmet questo è stato sempre chiarissimo, ma attenzione, purtroppo il significato di questa domanda potrebbe molto presto essere diverso. Eh sì, tenevano inchiodati all’ascolto gli interventi degli autorevoli ed autorevolissimi studiosi, scrittori, giornalisti e rappresentanti di istituzioni come FAO e WWF invitati da Barilla al quarto International Forum for Food and Nutrition (28-29 novembre alla Bocconi di Milano) per tracciare scenari futuri ma  prossimi o forse già presenti. E, al di là delle interessantissime tematiche come la giusta e corretta alimentazione specie dei giovani e dei bambini, quello che è emerso in maniera sempre più chiara è che il cibo sarà protagonista della storia nel bene e nel male, e se non si fa qualcosa purtroppo forse più nel male che nel bene.

Per essere subito molto chiari, la produzione del cibo rischia nei prossimi anni di mandare a picco il nostro pianeta. Ci accingiamo, a causa dell’aumento della popolazione mondiale e della ricchezza di paesi prima depressi, a produrre nei prossimi 40 anni più cibo che negli 8000 passati. La domanda mondiale di cereali è raddoppiata in un brevissimo arco temporale, stiamo già usando una volta e mezza le risorse del pianeta, la superficie dedicata all’agricoltura (un terzo di quella disponibile) è la massima possibile, e non potranno produrre di più se non con una estrema razionalizzazione dei metodi di coltivazione.

Parliamo di acqua utilizzata, di emissioni, di suolo usato e non più disponibile. Oggi “mangiamo” cinquecento volte l’acqua che beviamo, e si calcola che si dovrà passare dall’impiego di un litro d’acqua per caloria alimentare prodotta a quello di mezzo litro per due calorie, pena il “default” dell’ecosistema. Presto non sarà più sostenibile (perlomeno con i ritmi attuali) la produzione di un alimento come la carne che necessita per ogni chilo dell’uso oltre 15mila litri d’acqua (contro i 200 di un chilo di pomodori), provocando l’emissione di 26 chili di anidride carbonica (contro 1.1) con un “impatto ecologico” di 110 metri quadrati contro 1.5.

Per abbattere le emissioni di CO2, oltre che ridurre il numero di auto o di condizionatori, dovremo modificare la nostra dieta rendendola sostenibile: diminuire appunto la quantità di carne (in Europa questo vale soprattutto per i paesi del nord che dovranno aumentare il consumo di carboidrati complessi, ma anche per la Spagna), scegliere il più possibile prodotti locali che non implichino trasporti, ed evitare cibi preparati o elaborati in modo da risparmiare i costi ambientali della lavorazione. E forse la cosa migliore sarà essere come un amico indiano di Jason Clay (WWF) vegano quattro giorni alla settimana, vegetariano due e carnivoro la domenica. Insomma, le abitudini alimentari in famiglia avranno un ruolo fondamentale per le sorti della Terra, così come un apporto positivo lo potrà dare anche la grande distribuzione organizzata, come testimoniato da Alejandro Martinez Berriochoa della Fundación Eroski, la seconda catena di supermercati spagnola, dove ad ogni prodotto viene associato in etichetta un codice di colore che va dal verde (prodotto sostenibile) all’arancione (prodotto poco sostenibile).

E se il cibo viene a mancare? Il problema della fame si affaccia anche nei paesi sviluppati, e ormai sono ampie le percentuali di popolazione di Paesi come la Nigeria ed il Perù che praticano il “giorno senza cibo” settimanale. Negli Usa è ormai chiaro il concetto che le minacce alla sicurezza dei paesi cosiddetti avanzati proverranno sempre di più dalla scarsità di cibo e all’esproprio delle terre soprattutto nel continente africano. E il sacrificio delle foreste brasiliane per la produzione intensiva di soia (per il 60% importata dalla Cina che peraltro la fece conoscere al mondo) ha conseguenze negative dal punto di vista climatico incidendo, di nuovo, sull’inquinamento. Non solo: la riduzione della biodiversità nelle coltivazioni (migliaia di varietà di riso ridotte a 37 in Thailandia, per esempio) e l’allontanamento da tradizioni alimentari portano ad aumenti di malattie che erano state sconfitte proprio dalla selezione di caratteri alimentari peculiari e da pratiche virtuose tramandate da generazioni. Proprio per questo, la doppia piramide della sostenibilità e della sanità di un alimento tendono a sovrapporsi come dimostrano studi compiuti proprio in Barilla.

È ormai chiaro che ci avviamo ad un epoca di scarsità di risorse; anche a causa di eventi imprevedibili come grandi siccità (quest’anno in Usa c’è stata una riduzione del 4% dei raccolti) il costo di mais e soia è stato il più alto di sempre, e il prezzo dei cereali sarà sempre più l’indicatore del rischio di grandi conflitti. Aumento della popolazione, aumento della pressione alimentare, diminuzione delle risorse, e “9 miliardi di posti a tavola”, per dirla con il titolo italiano del libro appena tradotto per Edizioni Ambiente di Lester Brown. Il quale ha avvertito nel suo intervento: questa combinazione potrà essere l’origine dei conflitti del XXI secolo, molto diversa dalla voglia di supremazia così frequente nel passato. All’indomani dell’attacco di Pearl Harbor e dell’entrata in guerra gli Usa si trovarono a dover costruire improvvisamente 130mila aerei l’anno, un impresa che pareva impossibile. Roosevelt affrontò l’emergenza in modo radicale, chiedendo alle industrie di auto di bloccare la produzione per un anno e di riconvertirsi alle nuove necessità.

Quello era un regime di guerrà, si dirà. Ma in regime di guerra contro emissioni e scarsità di cibo entreremo presto, o forse ci siamo già.

Nella terza immagine (ansa.it) Guido Barilla; la seconda è del sito Agronotizie

Riccardo Farchioni

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